Forse per farsi un’idea di cosa abbia fatto Francesco inaugurando i viaggi del suo pontificato con quello che lo ha portato a Lampedusa bisogna capire, o farsi un’idea, di cosa abbia fatto Giovanni Paolo II inaugurando il suo pontificato con la celebre frase “non abbiate paura”. Si è detto da parte di molti che l’elezione di Giovanni Paolo II sia stato uno dei tasselli del ritorno del religioso. Ma perché? Perché la recessione del 1974 aveva spezzato la certezza capitalista (e illuminista) che la rivoluzione borghese aveva creato un corso di crescita e benessere che nulla avrebbe interrotto. La paura è tornata, ma questa volta come paura sociale; veniva messa in discussione la nuova certezza, la fiducia in un futuro di benessere. Questa era una paura nuova, diversa dalla paura dei tempi passati. La vecchia paura il professor Manlio Graziano la definisce “natura”, paura di disastri o invasioni: davanti a questa paura ognuno faceva i conti con sé stesso e, molto spesso, con Dio. Giovanni Paolo II ha colto la novità, la nuova paura sociale e ha dato la sua risposta.
Francesco a mio avviso ha capito prima di tutti noi la nuova paura, ha capito i tempi che arrivavano ed è andato nel luogo in cui la nuova paura aveva il suo epicentro anche simbolico. Questo luogo era ed è Lampedusa, dove lui si è recato l’8 luglio del 2013, poche settimane dopo la sua elezione a vescovo di Roma.
La crisi economica del 2008 aveva scosso le speranze di molti che la paura sociale fosse stata sconfitta: la paura tornava, di nuovo sociale, ma ora stringente, forse angosciante. Questa paura si è articolata nel mondo seguendo l’ideologia dell’apparente scontro di civiltà, ma basandosi sullo scontro reale, quello delle emozioni. Identificato con grande visione da Dominique Moisi, questo scontro di emozioni in contrasto lo indicava così: l’Asia, la terra della speranza, aveva ancora la sua certezza che il futuro per loro sarebbe stato migliore di ieri e dell’oggi; i Paesi islamici, terra di umiliazione, volevano liberarsene; l’Occidente, terra di benessere, temeva che i suoi privilegi, o le sue conquiste, stessero proprio svanendo.
Il 2011 arabo è arrivato come la piena della speranza araba: la speranza di potersi scrollare di dosso il peso opprimente di regimi dispotici, saccheggiatori e unirsi al resto del mondo. La ferocia della repressione ha prodotto il cortocircuito del 2015: in un Occidente in cui il calo demografico creava lo spettro di una carenza di manodopera l’afflusso di milioni di profughi in fuga da morte e tortura ha fatto percepire questo flusso come un’emergenza, togliendo consapevolezza dell’emergenza reale: l’emergenza percepita era l’invasione, il furto di lavoro. In questo senso il viaggio di Francesco è stata un’autentica profezia del suicidio che avremmo commesso di lì a breve e una risposta fragorosa al nostro silenzio sull’epicentro di questo sisma arabo, la guerra siriana. Sulla rotta balcanica arrivarono in tanti, ma il grosso di quel fiume inarrestabile di disperazione per la persecuzione disumana della loro speranza era siriano. L’8 luglio del 2013 Francesco aveva capito tutto. E ci avvisò, con due anni d’anticipo rispetto all’uragano del 2015.
Scartata la solidarietà nei confronti di Abele, il Caino che si è impaurito dentro di noi non ci ha fatto vedere non solo l’investimento politico-sociale da compiere aiutando la costruzione in Stati con noi confinanti della comune cittadinanza, la sola che avrebbe consentito un vero partenariato euro-mediterraneo. Ma ci ha fatto anche ignorare che quei migranti, opportunamente inseriti, erano una sorta di manna piovuta dal mare per un continente invecchiato, senza lavoratori in attività capaci di finanziare il welfare e un esercito di pensionati in crescita esponenziale.
Dunque, a Lampedusa, Francesco ha detto il suo “non abbiate paura”. Lo ha detto ricordandoci che Dio chiese a Caino “dov’è tuo fratello?”. Se è vero che ciò di cui bisogna avere paura è la paura, possiamo dire che questa paura, che ci ha fatto rimuovere l’emergenza reale in favore di quella percepita, ha poi spinto la politica a un sempre maggiore appagamento del nostro fabbisogno energetico con la Russia, invece che con i Paesi mediterranei. Perché se nessuno è fratello, se non c’è buon vicinato, se non si crede nella possibilità di costruire con le nostre civiltà il Mediterraneo delle cittadinanze, allora restano solo altri interessi, più o meno lungimiranti, le economie dei nostri vicini collassano e un evento disastroso come la crisi del grano può davvero creare una gigantesca emergenza migratoria. Solo il buon vicinato e il sostegno alla richiesta di cittadinanza in tutti i paesi del bacino Mediterraneo poteva costruire un futuro migliore per tutti, anche per noi.
Quel viaggio rimane dunque il paradigma di come vada capito da capo il concetto di “interesse nazionale”. Certo che questa deve essere la bussola di ogni politica estera. Ma se non si capisce che il nostro interesse nazionale non può andare contro quello dei nostri vicini, che il Mediterraneo è come un condominio nel quale viviamo con gli altri e il loro benessere aumenterà il nostro, non il contrario, allora ci condanneremmo a una vecchiaia fatta di povertà e solitudine.