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Non esiste un diritto alla morte

“Ogni individuo ha diritto alla vita”. Non è un’invenzione dei preti. E’ l’articolo 3 della dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Ed è un tema che non può essere rinchiuso nel recinto della confessione religiosa, nella banale (e miope) divisione tra credenti e non credenti.

Dopo i casi Welby ed Englaro, l’attenzione si sta nuovamente concentrando sull’eutanasia e sulla normativa che dovrà regolare il fine vita. In questi giorni, infatti, è in discussione alla Commissione Affari Sociali della Camera il disegno di legge “in materia di consenso informato e di dichiarazioni di volontà anticipate nei trattamenti sanitari”, che dovrebbe arrivare in Aula nel giro di qualche settimana. E puntuale come un orologio svizzero arriva il caso destinato a influenzare l’opinione pubblica. E’ quello di dj Fabo che ha chiesto al Presidente Mattarella di intervenire sul suo fine vita. Fabiano Antoniani ha 39 anni e dal 13 giugno 2014, in seguito a un incidente stradale, si ritrova cieco e tetraplegico. Un caso molto simile a quello di Piergiorgio Welby e anche questa volta accanto a lui c’è l’associazione Luca Coscioni.

Altrettanto puntualmente arriva il sermone di Roberto Saviano che dalle colonne dell’Espresso intona il peana nei confronti della municipalità di Città del Messico che ha da poco approvato il “diritto a una morte degna” nel suo distretto, un precedente che potrebbe ben presto spalancare la strada al riconoscimento costituzionale del “diritto” all’eutanasia. I precedenti, in questo caso, non mancano su temi come l’aborto e le unioni omosessuali. Secondo lo scrittore napoletano, si deve riaprire anche in Italia il dibattito “su come sia possibile vivere dignitosamente se non si è liberi di decidere come morire. Se non si ha la certezza di poter disporre della propria morte senza che nessuno (stato o famiglia) possa interferire”.

Un dibattito ampio è necessario. La difficoltà è intendersi sul significato di vita e di diritto. Purtroppo, in una mentalità sempre più diffusa, si vuole far passare come diritto qualsiasi voglia o pretesa. Così, per esempio, si confonde il desiderio di avere un figlio con un diritto, che invece tale non è. Perché un figlio non è nella “disponibilità” dei genitori. Lo stesso discorso vale per l’eutanasia. Esiste un diritto alla vita, non alla morte. Esiste, al contrario, il diritto alla tutela della dignità della persona, in tutte le fasi della vita, anche quelle terminali, quando la malattia provoca dolore o rende inabili. Perché anche quella è una vita degna, che vale la pena di essere vissuta.

Il problema, semmai, è quando si trasforma la stessa vita, o meglio la salute, in un idolo, come ammoniva giustamente Papa Francesco nell’udienza generale di mercoledì 11. Se non sto bene, se non ho il pieno controllo di me, se non ho un corpo efficiente che mi consente di fare quello che mi pare, allora non vale la pena vivere. A questo porta una cultura che fa dell’efficienza e del consumismo totem intoccabili. Ma attenzione, perché il rischio del totalitarismo è dietro l’angolo, come dimostrano gli orrori nazisti del secolo scorso, con le sue farneticazioni eugenetiche e la sistematica eliminazione dei disabili. Oggi non siamo forse a quei livelli di brutalità ma l’eutanasia si inserisce perfettamente in quella cultura dello scarto così spesso denunciata dal Pontefice.

La Chiesa è strenuamente schierata in difesa del “valore sacro della vita umana dal primo inizio fino al suo termine” ed è impegnata a riaffermare con forza il “diritto di ogni essere umano a vedere sommamente rispettato questo suo bene primario”, come scrisse San Giovanni Paolo II nell’Evangelium Vitae. Nessuno nega che la sofferenza, propria o di persone care, sia un peso difficile da sopportare. Ma non è giusto imboccare facili scorciatoie. L’alternativa all’eutanasia esiste. E’ fatta di assistenza, di cure palliative, di vicinanza. Eppure, quanto “investe” lo Stato in questi ambiti? L’esperienza dimostra che la stragrande maggioranza delle persone alle prese con malattie incurabili e disabilità gravi non chiede l’eutanasia. Chiede aiuto. Purtroppo spesso non lo trova, finendo nel vortice della disperazione. Le loro famiglie sono lasciate a se stesse proprio quando hanno più bisogno. Non si tratta di accanimento terapeutico ma di riconoscimento del valore infinito, intrinseco, di ogni vita umana.

E’ questa la prospettiva corretta in cui il legislatore dovrebbe muoversi per decidere sul fine vita. Il resto rischia di essere solo una forzatura ideologica, come quelle alle quali, purtroppo, siamo ormai abituati.

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