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Non è più il tempo delle favolette

Stavolta non sono suonate le sirene ad allertare la popolazione. Nessuna corsa ai rifugi come in tempo di guerra. Lo scempio lo si deve al “fuoco amico”, un avversario non così palese pur tanto ingombrante, un antagonista cui non abbiamo dato peso, un’entità malevola di cui il nostro silenzio ci ha reso complici inveterati. Il crollo, che ha drammaticamente mietuto decine di vittime, ha sgretolato un’intera città e ha fermato il cuore di un Paese la cui cardiopatia politica, sociale ed economica è già sopravvissuta a troppi collassi. Il primo colpevole è l’avidità degli speculatori, la cupidigia che non si è fatta cruccio di collezionare successi finanziari a scapito dei più elementari e ragionevoli investimenti per la sicurezza delle infrastrutture. Una vendemmia scriteriata che adesso porta a rammentare – emergenti le mie radici contadine – che anche i campi devono riposare per non depauperarne la produttività. Era la pratica agricola del “maggese”, quella consistente nel fare (proprio nel mese di maggio) una serie di lavorazioni su un terreno povero tenuto in stand-by così da prepararlo ad una successiva coltivazione di cereali.

La sconsiderata corsa al profitto purtroppo non prevede che si fermi il tintinnare della cassa, costantemente spalancata a ingurgitar denaro. Aziende e imprese (e con loro chi ci lavora) vengono spremute fino al perseguimento del massimo obiettivo nella più totale indifferenza rispetto al baratro che ne seguirà. I mancati interventi di “manutenzione” non riguardano solo la rete autostradale ma qualunque sorta di infrastruttura e di organizzazione. L’Italia è stracolma di “ponti Morandi” e il nostro sguardo deve andare ben oltre la ricerca di sopraelevate e cavalcavia più o meno pericolanti o semplicemente inaffidabili. Il problema della fragilità riguarda tanti (troppi) settori (si pensi anche soltanto al contesto delle telecomunicazioni) e mai come in questo momento si sente la necessità di una guida matura e consapevole del Paese. Non saranno né una manciata di tweet né una diretta su Facebook a mutare il corso dell’impietoso capitolo del declino nazionale. Servono fatti di granitica solidità, di assoluta concretezza, di inoppugnabile certezza.

Non è più il tempo delle “favolette” (come qualcuno aveva etichettato l’ipotesi del cedimento del viadotto genovese), né del tanto decantato “uno vale uno” che ha obnubilato la mente di chi voleva a tutti i costi dire la sua anche in assenza di specifica competenza o di semplice elementare conoscenza. Adesso – come non mai – il timone deve essere nelle mani di chi sa tirar fuori ogni singola barca dal rischio di burrasche o di secche. La flotta patria deve ritrovare la rotta: riscoperto il dolore (il dolore vero, non quello del morboso intrattenimento televisivo sempre contornato da caleidoscopiche paillette e da inserzioni pubblicitarie nei momenti di più elevata finta commozione e massimo ascolto), tocca in sorte riprender confidenza con il sacrificio. Le sovente utopiche promesse elettorali devono fare i conti con la realtà e lasciare il posto a iniziative di pratica attuazione. Le reazioni a disastri come quello sul greto del Polcevera non si devono limitare a strombazzanti proclami, ma tradurre in linee di condotta ragionate e valutate. In questo momento la gente capace non deve far paura, i professionisti competenti non devono essere tenuti alla larga, le persone perbene devono avere il ruolo che è sempre stato negato loro perché di intralcio al train de vie cui il malgoverno ci ha abituato.

La circostanza funesta deve far riflettere. Chi ha fatto miliardi e miliardi di utile (anche sulla pelle degli utenti) poco si inquieta dinanzi a una multa da 150 milioni. La revoca della concessione non è un interruttore che si gira con due dita ma un procedimento che banalmente prevede che si sappia cosa fare dopo, come farlo e con chi. Non è più tempo di pur folkloristiche “grida manzoniane”. Le responsabilità verranno accertate dall’Autorità giudiziaria (e non dagli ospiti del talk-show di turno) e forse un’inchiesta parlamentare può allargare l’orizzonte su uno scenario davvero poliedrico. Si dovrà sapere chi ha sbagliato per “opere ed omissioni” come recita il Confiteor, ma non dovrà essere una mera formalità penitenziale. Carte e testimonianze permetteranno di ricostruire irregolarità, errori, valutazioni improprie, interferenze, iniziative e provvedimenti mancati, accomodamenti, reticenze, certificazioni fasulle o addomesticate: chi “ha chiuso un occhio” dovrà esser giudicato con la severità di chi non riesce più a prender sonno dopo l’apocalisse di martedì 14 agosto.

Dalla culpa in eligendo, a quella in vigilando, al dolo più criminale: l’identificazione dei rei non deve essere un semplice rastrellamento, ma diventare un inesorabile modello di lavoro in un Paese dove non manca nemmeno una Autorità nazionale anticorruzione, ma dove tutti continuano imperterriti e imperturbabili nelle rispettive scorrerie. Il conto deve essere presentato ai politici, alle aziende, ai manager, ai tecnici, ai burocrati. Ce n’è per tutti. Il quadro deve essere preciso e impietoso ma non sarà istantaneo come un selfie. Non deve essere semplice e inutile vendetta, ma giustizia. Rappresaglie e regolamenti di conti non sono una buona base per costruire il futuro. La serietà, e non la rabbia, assicura il nostro domani.

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