“Pensando al cammino di guarigione e riconciliazione con i fratelli e le sorelle indigeni, mai più la comunità cristiana si lasci contaminare dall’idea che esista una superiorità di una cultura rispetto ad altre e che sia legittimo usare mezzi di coercizione nei riguardi degli altri… Non permettiamo che alcuna ideologia alieni e confonda gli stili e le forme di vita dei nostri popoli per cercare di piegarli e di dominarli”. Con queste parole papa Francesco ha risposto alla domanda degli indigeni di prendere le distanze dalla Dottrina della Scoperta. Questa richiesta, per fortuna, è stata ribadita in modo esplicito con uno striscione durante la fase finale del viaggio di Francesco. Ha scritto l’Ansa: “Con lo striscione “Rescind the Doctrine” (Cancella la Dottrina), prima alzato davanti all’altare della messa papale e poi esposto fuori del Santuario nazionale canadese di Sainte-Anne-de-Beaupré, gruppi di indigeni contestano papa Francesco poiché, nonostante le scuse ai nativi per gli orrori nelle scuole residenziali cattoliche e della politica di assimilazione, non ha ancora ripudiato la Dottrina della Scoperta, gli editti emessi dalla Chiesa nei secoli passati che autorizzarono le potenze coloniali a invadere territori americani e africani e a sottometterne e schiavizzarne le popolazioni”.
Se il discorso si fosse risolto con la presentazione di scuse (più o meno sentite dal mondo cattolico) per gli abusi e i maltrattamenti non saremmo stati davanti a un discorso. Lo ha fatto presente lo stesso Francesco, rivolgendosi alle comunità native americane: “Molti di voi e dei vostri rappresentanti hanno affermato che le scuse non sono un punto di arrivo. Concordo pienamente: costituiscono solo il primo passo, il punto di partenza”.
Nessun viaggio, neanche uno di questa portata, può cambiare la storia: se anche il papa atterrando in Canada, tra i popoli indigeni, avesse solennemente ripudiato la Dottrina della Scoperta e poi fosse tornato a Roma, cosa sarebbe cambiato? Si sarebbe avviato un qualche processo? Non penso. Per farlo occorre partire, non illudersi di essere arrivati in porto.
La comprensione della storia è il primo punto per comprendersi davvero e il punto è stato presentato con precisione su La Civiltà Cattolica da padre Federico Lombardi, che ha ricostruito così la gravissima questione posta: “La posizione della Chiesa cattolica è da tempo radicalmente critica verso ogni forma di colonialismo. Nel suo magistero si trovano attestazioni antiche e autorevoli sulla dignità dei popoli indigeni, a partire da quelle famose di Paolo III nella Bolla Sublimis Deus del 1537: «Noi definiamo e dichiariamo che i suddetti Indiani e tutti gli altri popoli che possano in seguito essere scoperti dai cristiani, non devono in nessun modo essere privati della loro libertà e del possesso dei loro beni, anche se non hanno la fede di Gesù Cristo; e che essi possono e devono, liberamente e legittimamente, godere della loro libertà e del possesso dei loro beni; né devono essere in alcun modo ridotti in schiavitù». Questa dottrina è stata in seguito sempre autorevolmente ribadita dai papi, fino a papa Francesco. Non si può negare, tuttavia, che prima di essa vi erano state dichiarazioni – nei dibattiti si fa riferimento soprattutto ad alcune Bolle papali della fine del XV secolo e alla dizione terra nullius («terra di nessuno») – che erano state usate in favore dell’appropriazione delle terre, in particolare da parte delle potenze «cattoliche», alla luce di intrecci fra gli interessi dell’evangelizzazione e quelli della colonizzazione. Nel tempo si è poi giunti a parlare di una «dottrina della scoperta» (Discovery Doctrine) come concetto di diritto internazionale, che nel secolo XIX fu fatto valere nelle cause fra i nuovi Stati della Federazione americana e i popoli indigeni. Da parte indigena si richiede quindi con insistenza il rifiuto della «dottrina della scoperta», e diverse denominazioni cristiane non cattoliche si sono pronunciate in questo senso fra il 2009 e il 2013. Perciò continua a essere necessario ribadire la distanza storica, spirituale e concettuale percorsa dalla Chiesa cattolica per raggiungere nel tempo una visione sempre più chiara e un’affermazione sempre più decisa, in tutte le sedi opportune, della dignità e dei diritti dei popoli indigeni e dell’inconciliabilità fra evangelizzazione e colonialismo”.
Ma la questione non si esaurisce qui: “Oltre i tempi della «scoperta» e della prima fase del colonialismo nelle regioni orientali, nuovi ed enormi problemi si sono sviluppati durante il periodo della formazione e trasformazione del Canada nel corso del XIX secolo, e con l’espandersi massiccio della presenza, delle attività e degli interessi dei «bianchi» verso occidente, fino alle coste del Pacifico. Il Canada nasce nel 1867 come Dominion federale dell’Impero inglese. Nel 1876 viene promulgato l’Indian Act, come documento di riferimento giuridico e programmatico del governo canadese per la gestione degli «Affari indiani», cioè delle questioni attinenti ai popoli indigeni nel contesto del nuovo Paese. La politica del Canada di allora nei confronti dei popoli indigeni fu caratterizzata dalla convinzione, culturalmente dominante a quel tempo nelle regioni «civilizzate», dell’inferiorità delle etnie e delle culture indigene e della loro inevitabile estinzione, e quindi dalla pressione per l’assimilazione degli indigeni nella società di matrice europea, come unica prospettiva realistica di futuro per loro”. Le parole di padre Lombardi costruiscono una presentazione a tutti accessibile di un problema enorme e che non si affronta nella sua interezza se non si tiene conto di due punti: la pretesa superiorità dell’uomo bianco, e quindi del cristianesimo, e la compatibilità del capitalismo con altri sistemi.
A mio avviso il papa ha dato una risposta chiara al primo punto. La frase citata in apertura potrebbe bastare, ma forse non basta: “Oggi siamo tentati – ha detto Francesco- da una forma di sociologia sterilizzata. Sembra che si consideri un Paese come se fosse una sola operatoria, dove tutto è sterilizzato: la mia razza, la mia famiglia, la mia cultura”. Il papa è per il meticciato, lo ha detto chiaramente. Perché è per l’incontro: “mescolare ti fa crescere, ti dà nuova vita”. Ha quindi ragione padre Antonio Spadaro quando osserva che “ciò che Francesco ha detto e dice sugli indigeni in varie parti del mondo plasma un modello di Chiesa e di evangelizzazione caratterizzato dalla riconciliazione e dal multiculturalismo”.
Così dicendo Francesco ha posto le basi per sfidare con la cultura indigena l’individualismo, che non può accettare culture che non lo prevedono, non lo seguono, non vi ricorrono. Lo sviluppo dell’economia mondiale mi sembra andare in questa direzione. Si può essere cinesi, avere un partito unico, ma per esserlo si deve scegliere un preciso sistema economico. Si può analogamente, ad esempio, praticare una vita nomade? Questo a me sembra il grande nodo che il viaggio ha evidenziato e che non si vuol vedere. Il pensiero unico è stato razzista ai tempi della conquista, certamente. Ma oggi un vero meticciato è possibile fuori da un contesto individualista, o, se si vuole usare un termine più esplicito, capitalista?