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Nessuno è straniero per il Papa

Una messa celebrata a San Pietro dal Pontefice sembra la normalità, ma stavolta non lo è. La funzione dedicata ai migranti ha un alto valore civile oltreché religioso. Il Papa figlio di migranti ricorda con questo gesto che nessuno è straniero agli occhi di Cristo e del Suo Vicario. Esattamente sei anni fa il successore di Pietro si recò a a Lampedusa per una visita in forma “discreta”, “toccato” dal naufragio di un'imbarcazione di immigrati dall'Africa. In un silenzio irreale, a un a passo da noi cronisti meravigliati da tanta informalità e semplicità, lanciò una corona nelle acque dell'isola, incontrò immigrati e popolazione e scelse per la messa un altare costruito con i legni delle barche di disperati del mare affondate nel canale di Sicilia. Oggi come allora Francesco accende i riflettori del mondo sull'emergenza-migrazioni.

A un mese dall'elezione al Soglio l'arcivescovo di Agrigento, Francesco Montenegro aveva invitato il Pontefice a visitare l'isola delle Pelagie. Il Papa arrivato dalla “fine del mondo” aveva mostrato una spiccata attenzione verso gli ultimi fin dall'inizio del suo pontificato. La risposta positiva all'invito di una diocesi di periferia (geografica ed esistenziale) fu immediata. Come la messa a San Pietro, anche la visita a Lampedusa si realizzò nella forma più discreta possibile. La scelta dell'isola di Lampedusa come meta del primo viaggio papale fu essa stessa un messaggio forte che nelle intenzioni del Pontefice voleva aiutare il mondo a leggere la storia con gli occhi Dio. Lampedusa è la terra di approdo di migliaia di africani in cerca di una vita dignitosa in Italia e in Europa. La visita papale fu accompagnata dal documento del Pontificio Consiglio per i migranti e itineranti sulle migrazioni forzate: un modo per unire alle parole un gesto simbolico di grande significato come la presenza del Pontefice alla porta d'Europa. 

La “pastorale dei migranti” di Francesco sulle orme di San Giovanni Paolo II. Come l’esortazione apostolica Amoris laetitia risulta in perfetta continuità con la sollecitudine per le situazioni familiari canonicamente irregolari e le aperture verso i divorziati risposati dell’allora arcivescovo di Monaco e Frisinga, Joseph Ratzinger, così affonda le proprie radici nel pontificato di Karol Wojtyla l’attenzione di Jorge Mario Bergoglio per le condizioni storiche all’origine delle migrazioni. Nel 1992, infatti, durante l’ottavo dei suoi 14 viaggi africani, Karol Wojtyla si recò a Gorée, luogo carico di secolari sofferenze e spietati retaggi coloniali, delimitato da forti militari ed enormi boabab, dove per gli scenari suggestivi fu girato il film “I cannoni di Navarrone”. Stanze buie e rocce per ammassare uomini, donne e bambini, portati qui dai mercanti schiavisti da ogni terra e da ogni foresta africana, in attesa di essere caricati sulle navi per attraversare l' oceano. “Al primo piano si aprono ancora le sale dove i padroni negrieri vivevano nel lusso e nei piaceri, senza curarsi di ciò che accadeva sotto di loro – raccontò il vaticanista Domenico Del Rio -. C’è una porta, che dà sull’oceano, a livello dell’acqua, sulla cui soglia di basalto ora batte lentamente l'onda, ma che allora immetteva su un ponte di legno che portava alle stive delle navi ferme al largo. Il grido dei secoli Da quella porta e su quel ponte venivano incamminati gli schiavi. Era l’addio all’Africa. Chi avesse voluto scappare, gettandosi in acqua, non avrebbe avuto scampo: questo tratto di mare brulicava di pescecani. Quanti milioni di africani in catene siano passati da quel varco nero senza ritorno, nessuno lo sa con precisione”. Dall’isolotto-simbolo in cui gli africani in catene venivano caricati sulle navi per un viaggio senza ritorno verso il nuovo mondo, Giovanni Paolo II fece mea culpa davanti a Dio e agli uomini per i cristiani che, nei secoli passati, si sono macchiati del «crimine enorme» della tratta dei neri. E a compiere tale ignominia furono i cristiani, cioè uomini che dicevano di avere fede in Cristo.

“Sono venuto qui per rendere omaggio a tutte queste vittime, vittime senza nome“, affermò Karol Wojtyla, in piedi, nella polvere del cortiletto della Casa degli schiavi. “È l’ingiustizia, è il dramma, di una società che si diceva e che si dice cristiana”. È la stessa ingiustizia che nel Novecento “ha ricreato la medesima situazione di schiavi anonimi nei campi di concentramento: la nostra è una civiltà piena di debolezze, piena di peccati”. Anche nel ventesimo secolo “si depreda il mondo del poveri” e ci sono “nuove forme di schiavitù“, come “la prostituzione organizzata, che sfrutta vergognosamente la povertà delle popolazioni del Terzo Mondo”. Il Papa polacco si fermò a guardare l’oceano, in silenzio, per sette minuti. Racconterà poi di aver sentito “il grido dei secoli, il grido di generazioni di neri fatti schiavi”. Con la sua sensibilità di antropologo-filosofo avvertì “il simbolo dell’orribile aberrazione di coloro che hanno ridotto in schiavitù i fratelli e le sorelle“, “teatro di una eterna lotta tra la luce e le tenebre, tra il bene e il male, tra la grazia e il peccato”. E commentò: “Uomini, donne e bambini sono stati condotti in questo piccolo luogo, strappati dalla loro terra, separati dai loro congiunti, per esservi venduti come mercanzia. Essi venivano da tutti i Paesi e, in catene, partivano verso altri cieli, conservando come ultima immagine dell’Africa natia la massa della roccia basaltica di Gorée. Si può dire che quest’isola rimane nella memoria e nel cuore di tutta la diaspora nera“. Quindi nessuna monotematicità o discontinuità nel magistero sociale ed economico di Papa Francesco rispetto a chi lo ha preceduto sul Soglio di Pietro. Tutto il Concilio Vaticano II e in particolare la costituzione pastorale Gaudium et Spes hanno al centro la preoccupazione di restituire ai poveri il primato nella vita pastorale della Chiesa e una conferma di ciò la troviamo nella scelta prioritaria per i poveri manifestata dall’intero episcopato latino-americano. 

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