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Montagne sentinelle del clima, prendiamocene cura

“Sarebbe bello se l’Italia, ferita dalla prima tragedia alpinistica imputabile alla crisi climatica, fosse pioniera nel mostrare coraggio. Invece si risponde che ci sono sempre altre urgenze, e che si accantona l’ambientalismo perché c’è la guerra. È sbagliato, le emergenze vanno affrontate contemporaneamente”. Così lo scrittore Paolo Cognetti ha commentato la crisi climatica alcuni giorni dopo la tragica valanga avvenuta nel ghiacciaio della Marmolada, che è costata la vita due settimane fa a 11 escursionisti.

Il concetto da condividere è proprio questo: considerare i cambiamenti climatici una priorità, assieme ad altre, e imparare a governarli senza impattare negativamente sull’occupazione, sui diritti, sulla coesione sociale. Per farlo serve un cambiamento profondo nelle nostre abitudini, negli stili di vita, nelle politiche pubbliche, nelle relazioni industriali, nella composizione del tessuto produttivo di ciascun territorio.

In Italia potremmo vantare già tanti primati, essendo molte le imprese che investendo nella sostenibilità hanno saputo rinnovarsi incrementando la propria competitività. Ma la strada della transizione ecologica è ancora lunga e richiede politiche all’altezza, che siano strutturali e vadano dunque al di là delle singole iniziative emergenziali.

Sarebbe sbagliato pensare che la cura delle nostre montagne passi per un ulteriore abbandono delle aree rurali. Per troppo tempo i borghi e i piccoli comuni hanno subito uno spopolamento che ha smantellato nel giro di poco tempo comunità e identità, forme di presidio del territorio, professionalità legate al mondo rurale.

Secondo un dossier di Symbola, in 300 borghi italiani ormai non c’è più nemmeno un bar né un negozio di generi alimentari, e la penetrazione della banda larga nei piccoli comuni arriva solo al 17,4 per cento delle utenze servite, contro il 66,9 per cento della media nazionale.

Dobbiamo invece imparare a fare il contrario: abitare di nuovo la montagna, attrarre giovani, imprese, investimenti. Una delle leve maggiori per intraprendere questo percorso sta nell’investire sul lavoro green, sulle cosiddette tute verdi: lavoratori agroalimentari, forestali e della bonifica, categorie che svolgono un ruolo imprescindibile nella conversione ecologica del nostro sistema produttivo e nella creazione di nuove opportunità di occupazione e crescita sostenibile.

Come Fai Cisl abbiamo richiamato l’attenzione su questi temi in più occasioni, specialmente con le nostre Giornate della Montagna, svolte negli scorsi anni tra le Dolomiti e in Abruzzo, e che nel 2023 – siamo orgogliosi di annunciarlo in anteprima – svolgeremo in Calabria.

Sono temi emersi in particolare durante la pandemia, quando è apparso ancora più forte il desiderio di molti di vivere in zone rurali e montane. Ma servono appunto condizioni di abitabilità imprescindibili: connessioni telematiche, trasporti pubblici, servizi sanitari e scolastici, imprese agroalimentari e zootecniche, presidi forestali.

Non a caso, appena prima della pandemia avevamo lanciato un nostro Manifesto per la Montagna che, a distanza di tre anni, non solo risulta attualissimo, ma ancora più urgente da realizzare. L’idea di fondo è quella che senza investire sul lavoro ben retribuito, tutelato e qualificato nei comparti della forestazione, della bonifica, dell’agricoltura, dell’acquacoltura, del sistema zootecnico, non può esserci riscatto delle aree interne né cura del territorio. Il lavoro è infatti la principale leva di sviluppo del sistema montagna e primo fattore di coesione sociale sul quale puntare per valorizzare l’immenso patrimonio economico, ambientale e antropologico delle montagne italiane.

Altri punti del manifesto riguardano le aree marginali, che devono essere costituite da comunità connesse ed inclusive; gli interventi legislativi, da realizzare in maniera organica e lungimirante; la tutela dell’ambiente; misure per l’equità fiscale e la giustizia sociale. Uno specifico paragrafo è rivolto al lavoro idraulico-forestale, che se ben qualificato e professionalizzato è un fattore chiave per una più equilibrata gestione delle risorse boschive, vero presidio umano da garantire in modo costante sul territorio per coniugare un uso produttivo del bosco alla tutela ambientale e al superamento delle logiche emergenziali degli eventi calamitosi. Il rinnovo del contratto nazionale, scaduto da oltre dieci anni, ha rappresentato da questo punto di vista l’avvio di una svolta verso una nuova fase, che lascia ben sperare per riformare il settore in questa direzione.

Il Manifesto aveva trovato condivisione in tanti livelli politici e istituzionali, raccogliendo il sostegno di scienziati, giornalisti, artisti, docenti, imprenditori. Oggi questi obiettivi meritano di essere rilanciati, soprattutto alla luce di alcuni aspetti: pensiamo all’emergenza idrica e agli obiettivi di miglioramento delle infrastrutture irrigue, sui quali il Pnrr stanzia 880 milioni di euro, ma pensiamo anche agli incendi che devastano ogni estate la penisola da Nord a Sud, alla crisi internazionale, che pone nuove sfide per la produzione agricola e alimentare, o al bisogno di rimettere in moto i circuiti del turismo dopo la pandemia, o di invertire la rotta della crisi demografica e dell’abbandono delle aree interne. Tutti fattori connessi tra loro, che richiedono alla politica l’assunzione di responsabilità, scelte consapevoli, capacità di concertazione. Perché prenderci cura delle nostre montagne, sentinelle del clima, vuol dire prenderci cura di noi e del futuro di tutti.

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