Due anni di pandemia e adesso la guerra. La peggiore delle espressioni che l’uomo potesse partorire, perché nella guerra non ci sono mai vincitori, ma tutti sconfitti, anche chi la guerra, a modo suo, la vince. Ci siamo svegliati una mattina con il peggiore degli incubi, le immagini televisive che mostravano le truppe russe bombardare Kharhiv e gli anteposti dell’Ucraina. Non era solo un bruttissimo incubo, ma la peggiore delle realtà. L’esercito russo che si muove su tutto il territorio ucraino, scontri tra i due eserciti, bombardamenti. Non sto a sviscerare torti o ragioni, perché una guerra non ha mai una ragione di esistere. Una guerra che parte da lontano, con la responsabilità di Putin ma anche dell’intero Occidente. L’incapacità di mantenere vivi gli equilibri tra nazioni. Come non bastassero i ricordi della Jugoslavia, del Kosovo, dell’Afghanistan e di tante altre guerre scatenate da politica, religione, affari economici. Adesso la guerra è a due passi da noi. Ci sono i morti, uomini, donne e bambini, che scappano dall’orrore, lasciano le loro case cercando unicamente la salvezza. E davanti a certe scene, non si può rimanere indifferenti, perché questa guerra è globale, è di tutti e quei morti sono i nostri. Mamme russe e ucraine che piangono per i loro figli. Io, che nasco nello sport, nel calcio che rappresenta la mia vita, faccio il tifo per la pace, per quella libertà minata.
Il mondo chiude le porte in faccia alla Russia, la tiene lontana, anche nello sport. Non a caso Fifa e Uefa hanno deciso all’unisono di cancellare la Russia dal mondo dello sport. Non ci saranno qualificazioni mondiali per la Nazionale che solo quattro anni fa ha organizzato uno dei più bei mondiali della storia. Estromesse anche le squadre di club dalle competizioni internazionali. Gazprom, non sarà più lo sponsor Uefa per Champions League e campionati europei. Un portone che si chiude, lasciando dietro una scia di malessere. Il Comitato Olimpico Internazionale è stato chiaro, e il messaggio è stato subito recepito dal mondo del calcio che ha escluso la Russia da qualsiasi manifestazione internazionale. Non è la prima volta, perché nel 1992, la Jugoslavia, allora favorita, fu esclusa dalla fase finale degli Europei causa conflitto interno. Fu ripescata la Danimarca che a sorpresa vinse il titolo.
Oggi la storia si ripete, con l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia che ha costretto il mondo sportivo a fare una scelta, decidendo per l’esclusione. Ma il tema è complicato, anche se a livello politico e diplomatico forse è stata la cosa giusta da fare. Perché non si possono voltare le spalle agli orrori della guerra e ai morti già caduti sul campo. Non si poteva fare finta di nulla, perché ammettere gli atleti russi al mondiale o a qualsiasi altra competizione, poteva rappresentare, nell’immaginario collettivo, un errore.
Ma c’è il rovescio della medaglia, perché la guerra non è solo politica o diplomazia. La guerra colpisce anche gli atleti, colpisce anche chi questa guerra non la vuole. Colpire la Russia nel suo panorama sportivo, significa colpire soprattutto chi la guerra non la vuole, chi insegue un sogno a cinque cerchi, un mondiale o una coppa calcistica. Escludere atleti russi, significa anche azzerare la passione di chi suda e lavora sul campo, costretto a rivedere i propri obiettivi per colpe non sue. Riporre nel cassetto sogni e ambizioni. Non sarà così però nel tennis, dove Daniil Medvedev, numero uno al mondo che si è esposto in prima persona per fermare la guerra, che a nome dei bambini ha chiesto la fine delle ostilità. Daniil, potrà continuare a volare nelle praterie dell’immenso con la sua racchetta, illuminare con la sua bellezza stilistica, i palcoscenici di tutto il mondo. Lui e gli altri tennisti russi e bielorussi, Andrey Rublev, Potapova potranno continuare a prendere parte a tornei internazionali, ma non sotto la bandiera e con il nome del loro Paese. Esattamente quello che inizialmente era stato ipotizzato dalla Fifa circa la partecipazione della Russia ai mondiali e alle competizioni per club, ovvero gareggiare sotto un’altra sigla, senza bandiera e senza inno nazionale. Poi il ripensamento dopo l’insurrezione popolare delle altre nazionali. Il tennis ha fatto eccezione. Almeno per ora, ma la contraddizione è evidente.
Pechino, con le recenti Olimpiadi invernali, ci ha fatto vedere l’immagine bella dello sport, all’alba della guerra, l’abbraccio sul podio tra due atleti, uno russo, l’altro ucraino. Quell’abbraccio non ha fermato il conflitto, ma rappresenta un segnale di pace, l’abbraccio tra due ragazzi che si sentono avversari sul campo, ma mai nemici. L’esclusione della Russia era forse l’unica cosa possibile, perché davanti ai missili e carri armati, non c’era spazio e tempo per pensare allo sport. Ma la guerra fa solo vittime, lascia alle spalle quell’acre sapore della sconfitta, anche per chi alla fine riuscirà a vincerla. Sperando sia la diplomazia e le parole. La realtà dice solo che in guerra non c’è mai un vincitore. Tutti sconfitti. E anche stavolta, non ci sono eccezioni.