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Midterm Usa: l’attesa della “sorpresa d’ottobre”

Nelle elezioni americane, che si tengono sempre il primo martedì dopo il primo lunedì di novembre, c’è una costante: l’attesa della “sorpresa d’ottobre”, il colpo di scena che cambia l’inerzia della corsa e rovescia il risultato. In realtà, la “sorpresa d’ottobre” non c’è quasi mai stata, a parte nel 1864, data cui risale la formula; ma i media la cercano sempre nelle pieghe della cronaca. Quest’anno, la Cnn la individua nella decisione dell’Arabia Saudita e dei Paesi Opec di ridurre la produzione di petrolio di due milioni di barili al giorno. Il presidente Usa Joe Biden se n’è immediatamente irritato, perché il taglio rischia di compromettere gli sforzi della sua Amministrazione per contenere i costi dell’energia, specie dei carburanti, e quindi l’inflazione. E dire che, per blandire i sauditi, in estate Biden aveva messo la sordina alle sue riserve morali, incontrando a Gedda il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman, il mandante dell’omicidio di Jamal Khashoggi, un suo oppositore.

I prezzi alla pompa sono subito tornati a salire. E con essi le speranze di successo dei repubblicani. A un mese dalle elezioni di midterm dell’8 novembre, l’inerzia della corsa, che prima dell’estate pareva tutta a favore dei repubblicani e che, dopo la sentenza sull’aborto della Corte Suprema, aveva invece preso una piega meno negativa per i democratici, torna a favore dei repubblicani, che potrebbero conquistare la maggioranza sia alla Camera che al Senato. Dalla loro, oltre all’inflazione e alla scarsa popolarità del presidente Biden, c’è la legge del pendolo del voto di midterm, che spesso premia il partito all’opposizione.

Per prendere il controllo del Congresso, ai repubblicani basta poco: l’8 novembre si eleggono infatti tutti i 435 deputati – i democratici ne hanno 220 e i repubblicani 212, con tre posti vacanti – e 35 dei 100 senatori – sono 50 pari: la maggioranza democratica posa sul voto del presidente del Senato che è il vice-presidente degli Stati Uniti, Kamala Harris. Ci sono pure da rinnovare 39 governatori, in 36 Stati e tre territori; e ci sono numerose altre elezioni statali e locali e alcuni referendum.

Quelle dell’8 novembre saranno le prime elezioni dopo la ridefinizione dei collegi per tenere conto dei dati del censimento del 2020. Fra le corse decisive, specie al Senato, quelle in New Hampshire, Georgia, Nevada e Arizona.

L’ultimo mese della campagna elettorale vede coinvolti il presidente Biden e il suo predecessore Donald Trump. Con la popolarità del presidente in risalita, ma ancora bassa, non superiore al 40%, e quella del suo predecessore offuscata – ma non agli occhi dei suoi fans – dalle inchieste che lo riguardano, la campagna si sta giocando su una varietà di temi: l’aborto divenuto cruciale, dopo che la Corte Suprema ha tolto la tutela federale, motivando le donne a votare democratico, per avere una legge che lo autorizzi e lo regoli – almeno sei Stati hanno referendum sull’aborto -; il controllo delle armi, dopo una serie di sanguinose sparatorie, specie nelle scuole; i piani di Biden per il rilancio dell’economia, le infrastrutture, la lotta al riscaldamento globale e per il rimborso dei debiti contratti dagli studenti per fare l’Università, i cui costi sono esorbitanti rispetto agli standard europei.

Ma il tema centrale è l’inflazione. Prima del taglio dell’Opec, l’Amministrazione Biden era riuscita a calmierare i prezzi alla pompa, ma l’impennata del costo della vita preoccupa i cittadini e l’aumento dei tassi d’interesse deciso dalla Federal Reserve frena l’economia.

Invece, la guerra in Ucraina o altri temi di politica estera, come le tensioni con la Cina su Taiwan, paiono non avere un grosso impatto sulle scelte degli elettori: i democratici beneficiano un po’ dell’effetto di “chiamata a coorte” intorno al capo che le tensioni internazionali spesso provocano e possono anche sfruttare una percezione di combutta in passato tra Trump e Putin.

A livello federale, i sondaggi indicano che democratici e repubblicani sono praticamente alla pari nelle intenzioni di voto – 46 e 47% rispettivamente, secondo dati recenti del Washington Post -. Questo, però, significa poco, perché quel che conta sono le maggioranze locali: tutto il sistema è maggioritario – chi arriva primo vince -. I democratici hanno maggioranze schiaccianti in California e a New York, ma altrove possono perdere per una manciata di voti sfide decisive.

Nelle loro primarie, i repubblicani hanno molto spesso scelto candidati sostenuti da Trump e pronti a sostenere che il voto 2020 gli è stato rubato: e hanno bocciato, con due sole eccezioni, deputati e senatori che gli votarono contro nei processi di impeachment. Per i democratici, la “trumpizzazione” dei candidati repubblicani è un fattore d’ottimismo: tendenzialmente, i candidati estremisti sono avversari più facili da battere alle urne. In campo democratico, invece, i candidati progressisti, che puntavano a spingere a sinistra il partito, non hanno nettamente prevalso sui centristi: l’equilibrio del partito non ne esce modificato.

Ma i media più autorevoli, come il New York Times e il Washington Post, avvertono un pericolo per la democrazia nella “trumpizzazione” repubblicana: una maggioranza dei candidati del GOP, infatti, non accetta i risultati delle elezioni presidenziali 2020; e molti non s’impegnano ad avallare l’esito del voto, in caso di sconfitta.

Il WP scrive che candidati che non considerano legittima la presidenza Biden sono in lizza in quasi tutti gli Stati e che molti sono favoriti (dei 300 in lizza, 174 sono sicuri di vincere e una cinquantina possono vincere): “Le implicazioni – di un Congresso ‘negazionista’, ndr – sulle presidenziali 2024 e sulla democrazia americana sarebbero profonde”.

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