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Mettere al centro il paziente attraverso l’ascolto

Nell’evoluzione dell’assistenza avvenuta negli ultimi decenni, l’attenzione si è gradualmente spostata dalla malattia al malato che non è più considerato un “caso” ma una persona nella sua interezza. Una recente indagine ha evidenziato il fatto che, nelle visite mediche, il tempo che viene riservato al paziente è di 15 secondi, dopodiché lo si interrompe e il medico affronta il problema della terapia.

Questo, a mio parere, è un concetto molto negativo ed infatti, ad oggi, le teorie che riguardano l’assistenza ne hanno dimostrato l’evoluzione. Si è passati dalla cosiddetta medicina intuitiva degli anni ’50 del secolo scorso dove, il medico, in base alla sua esperienza, intuiva la diagnosi e impostava la cura, mettendo quasi in subordine il paziente. Questo creava il “mito del curante” infatti, in quel periodo, il clinico aveva un grande prestigio per il suo arrivare in tempi rapidi alle diagnosi e ciò generava l’esclusività del medico.

Dagli anni ’80 invece, si è passati alla fase della diagnostica in cui la medicina era basata sulle evidenze. Così facendo si è passati dall’aspetto intuitivo del medico alla necessità di partire dalle evidenze. Ciò è successo perché, al personale medico, sono state fornite maggiori risorse diagnostiche e di laboratorio quindi, soltanto quando si trovano indizi e prove, si agiva. Direi che, attualmente, si è esaurito anche l’auge di tale approccio in quanto si è perso l’approccio diretto con il paziente, ovvero l’esame obiettivo diretto e tutti i sistemi propri della visita medica. Si agisce sulla base degli esami eseguiti, spersonalizzando il contatto con il paziente e concentrandosi sulle prove raccolte, si arriva ad una diagnosi.

Nell’ultimo approccio della medicina, detta anche narrativa, si tende a far parlare molto il paziente in merito ai suoi sintomi e all’esperienza di malattia da cui può scaturire la diagnosi. Ciò accade perché, dalla sua narrazione, sulla base della nostra formazione e della nostra cultura, si hanno gli elementi necessari per arrivare ad essa. Inoltre credo che, attraverso l’uso dell’intelligenza artificiale, mediante specifici database, si potrebbe arrivare alla costruzione di algoritmi per permetterci di rafforzare la medicina fondata sulle evidenze che, insieme all’intuizione medica, ci permetterebbe di giungere alle diagnosi.

Quelli che ho elencato sono aspetti puramente medici però, nella cura del paziente ne subentrano anche altri molto importanti. Gli ospedali, ad esempio, ai giorni nostri, vengono concepiti in maniera molto diversa rispetto ai decenni scorsi. Nella classica medicina ospedaliera c’erano le varie cliniche con le diverse specialità e, questo aspetto, aveva il vantaggio di un maggior approfondimento specialistico ma, dall’altro lato, sussisteva la perdita di una visione d’insieme. Oggi infatti, negli ospedali, si fa il modo di interconnettere le risorse e le specialità per consentire una visione olistica in cui i vari specialisti si trovano sullo stesso piano valorizzando la collegialità.

Ciò vale anche per l’oncologia, nella quale l’oncologo, il radioterapista, il nefrologo e altri specialisti, una volta alla settimana si riuniscono ed esaminano i vari casi. Accanto all’iperspecializzazione è quindi importante recuperare la collegialità.

Infine, il punto che vorrei citare nell’ottica dell’assistenza ai pazienti è la territorialità. Nei decenni passati, con l’iperspecializzazione, da una parte abbiamo creato delle eccellenze ospedaliere e, dall’altra, sono stati depauperati dei territori chiudendo i piccoli ospedali. Oggi si parla di Case di Comunità, più facilmente accessibili ai pazienti che, nelle aree più rurali e decentrate, possono avere accesso ad un primo intervento e avere il riferimento del medico di base il quale non è in grado di supportare tutta la cura ma deve indirizzare. Queste strutture sono una grande idea perché sono accessibili ai pazienti attraverso un collegio di medici generici che fanno uno screening per indirizzare le cure. Le Case di Comunità, quindi, presidiano i territori e gli ospedali sono costituiti da reti di specialisti integrati che consentono una visione olistica delle patologie. Tutto ciò mettendo il paziente al centro attraverso l’ascolto e la medicina narrativa.

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