I diari dei missionari, protestanti e cattolici, che raccontano il loro arrivo a Beirut nell’Ottocento parlano tutti di incanto: e in effetti Beirut vista dal mare era un incantevole scalo del Levante, una piccola fortificazione (ribat) sul mare, con porticciolo. Guardando dal mare a sinistra si vede la collina dei nobili, a destra un’altra collina, nessuna delle quali ha una rete di collegamento con il piccolo centro, laggiù. Sono gli ortodossi che si insediano a sinistra del porto, alle pendici della prima collina (Ashrafieh) mentre cattolici e protestanti vanno a insediarsi sull’altra collina. Qui nasce un quartiere in stile occidentale, tipo Manhattan per capirci, con viali lunghi tagliati da sottili perpendicolari. Sull’altro versante della città, sulla collina sovrastante il quartiere ortodosso, soggiungono dalle montagne i maroniti. Fuggono dalle guerre delle montagne, guerre tribali, che sul finire dell’Ottocento si fanno sempre più gravi. Costruiscono su quella collina un quartiere loro, in perfetto stile arabo.
Vista da fuori Beirut sembra una città tutta cristiana. Ma non lo è. Nel versante dei missionari cattolici e protestanti si insediano molti musulmani di rito sunnita, mentre in mezzo, alle spalle del porto, nella sottile gola che conduce verso l’entroterra, arrivano i poveri, gli sciiti. Anche loro hanno diritto a un posto al sole nella storia urbana di Beirut. La città ha uno sviluppo tumultuoso, tutti i fuggiaschi dalle guerre tribali arrivano qui. E insieme scrivono una petizione commovente e struggente al sultano ottomano: questa è la tua perla della costa, del mare, diventi anche la capitale delle tue riforme tese a dare a tutti una comune cittadinanza. E’ l’atto di nascita della cosmopolita Beirut.
I missionari, dai loro conventi sul versante a destra del vecchio porto costruiscono strade di collegamento con il centro urbano, sono viali transitabili, e così compaiono i primi palazzi, case con affaccio sulla strada, che sostituiscono le vecchie case arabe costruite nel vecchio stile per cui le finestre sono solo sul patio interno. Arriva l’illuminazione stradale, le lampade ad olio, e un nuovo stile architettonico: case di pietra con finestre ad archi dai quali si guarda alla vita, che scorre per strada. Beirut trasforma l’urbanistica araba. E al suo centro c’è il porto. Qui i commercianti di ogni fede trovano presto il modo di dividersi i compiti: i musulmani, tramite la ferrovia, intrattengono relazioni privilegiate con i commercianti musulmani dell’interno, di Damasco, quelli cristiani stringono relazioni privilegiati con quelli che giungono dall’Europa, cristiani anche loro. Beirut è un treno a vapore, ma anche un piroscafo, che trasforma tutta la costa.
La guerra civile, nella seconda metà del Novecento, trasforma il panorama. Le milizie cristiane dichiarano guerra alla città, al suo stile ibrido: vogliono una città come Berlino, viali dritti e ben distesi, una geografia urbana non orientale, che divida, non che unisca. Questa guerra diventa presto intercomunitaria, tutti combattono tutti, Beirut deve arrendersi, ogni mano partecipa alla sua distruzione.
Dopo tre lustri di follia Beirut rinasce dalle sue macerie, sempre con il porto al suo centro, e la nuova Piazza dei Martiri a confermare la ritrovata comune cittadinanza. E’ un miliardario musulmano sunnita, Rafiq Hariri, che la ricostruisce, a modo suo: ma lo fa. E così restituisce a tutti lo spazio comune, che unisce, non divide. La sera giovani di ogni comunità corrono in centro, accanto a Piazza dei Martiri, dove la milizia di Hezbollah, nel 2005, uccide con una montagna di esplosivo l’uomo che ha ricostruito Beirut. La città insorge, tutta.
Ci vogliono ben 15 anni prima che il Tribunale Internazionale riconosca le mani assassine, di Hezbollah, il partito khomeinista che ha giurato guerra al carattere cosmopolita di Beirut. Il giorno in cui la sentenza è attesa, all’inizio di agosto 2020, Hezbollah fa saltare in aria il porto di Beirut. L’ha riempito di esplosivo e ora lo colpisce con un missile, mandando in frantumi i suoi attracchi e tutto il vecchio quartiere ortodosso. E’ l’urbicidio. Beirut non deve sopravvivere, così aperta, plurale, all’uomo che la ha ricostruita. Ma ancora oggi, quattro anni dopo, Beirut resiste. Non piega la testa, con il suo messaggio cosmopolita, così integralmente levantino, l’unico che può cambiare il Medio Oriente.