Dopo più di un anno di emergenza sanitaria e di un sistema folle di aperture e chiusure per limitare la diffusione del virus, è il momento di tirare le somme di cosa stia realmente accadendo sul mercato del lavoro.
Esattamente 13 mesi fa le statistiche segnavano una discontinuità sul trend precedente con un crollo del tasso di disoccupazione, oggi la situazione si è ribaltata ma la vera criticità, credibilmente, è ancora a venire. Perché questo? Ci arriveremo ma partiamo dallo stato dell’arte.
A fine febbraio gli occupati sono calati di oltre 945’000 unità, i disoccupati hanno registrato un lieve aumento di mezzo punto percentuale, da 9,8% a 10,2% mentre gli inattivi, cioè coloro che sono fuori dal mercato del lavoro e che, quindi, non lavorano ma nemmeno cercano un’occupazione sono aumentati di circa 700’000 unità.
Questi dati, ovviamente, sono falsati dalla CIG e dal divieto di licenziamento, tutt’oggi in essere, che, secondo le nuove regole europee i lavoratori inattivi da almeno 3 mesi o in cassa integrazione devono essere esclusi dal computo degli occupati, cosa anche logica, ma seppur sovvenzionati a carico della contribuzione generale, non possono essere conteggiati come disoccupati perché, formalmente, un lavoro lo avrebbero ancora.
Il condizionale, ovviamente, è d’obbligo poiché molti dipendenti già sanno che una volta che il divieto di licenziamento terminasse, non rientrerebbero al posto di lavoro precedente e sono in attesa della lettera di cessazione del rapporto di lavoro.
La gestione dell’emergenza, infatti, altro non ha fatto che puntare su chiusure di attività e limitazioni nella circolazione, senza alcun vero investimento né nel potenziamento della sanità né nella prevenzione, girando meramente la responsabilità sulla popolazione che si è trovata a dover fronteggiare una situazione inedita, che ha falcidiato interi settori produttivi, tra cui quello turistico che da solo varrebbe oltre il 10% del PIL nazionale. Non è stato tanto il primo, lungo, lockdown ad aver avuto un effetto quasi letale ma la gestione schizofrenica delle zone colorate seguente che non permetteva a nessuno di poter programmare investimenti e lavoro se non nel brevissimo termine.
Non parliamo, poi, del capolavoro realizzato con la stagione sciistica quando un decreto del ministero della sanità decise di bloccare l’apertura degli impianti a 12 ore dall’avvio delle funivie, dopo che, sempre con la stessa modalità, si era annullato il periodo natalizio quando gli alberghi e le varie strutture ricettizie avevano già fatto tutti gli investimenti per l’apertura in sicurezza e assunto il personale necessario.
È evidente che una gestione emergenziale siffatta non abbia solo prodotto dei danni (ingenti) a livello economico ma abbia colpito, come già accennato in altri articoli, pesantemente le aspettative degli operatori che, razionalmente, non vedono l’opportunità né di fare nuovi investimenti né di mantenere i precedenti livelli di produttività, non essendo stata prospettata alcuna data di “ritorno alla normalità”.
Di qui, ammesso che esistano i presupposti per non chiudere definitivamente l’attività, la necessità di ridurre i costi e il primo costo aggredibile è quello del personale.
L’ampliamento della CIG a tutte le categorie ha dato sicuramente un aiuto per evitare il tracollo occupazionale lo scorso anno, così come il rifinanziamento mediante il programma SURE ha permesso di tirare un po’ il respiro sulla pressione finanziaria che il mantenimento di una cassa integrazione emergenziale così lunga sta esercitando sui conti pubblici ma, perdurando l’incertezza, non è credibile che una situazione simile possa durare ancora a lungo.
La perdita di quasi un milione di posti di lavoro nel corso del 2020 ne è la prova. Certo potrebbe sorgere la domanda “ma come è possibile tutto questo se vige il divieto di licenziamento?”.
La risposta è, in realtà, abbastanza semplice, si parla da un lato dei dipendenti delle aziende che, in questi mesi, abbiano chiuso e dall’altro dei lavoratori con contratto a tempo determinato che non ha visto il rinnovo, uniti a quei lavoratori che, visti i ritardi nel pagamento della cassa integrazione, abbiano concordato il licenziamento con il proprio datore di lavoro per ottenere il più puntuale e, spesso, più corposo assegno di disoccupazione.
La situazione, allo stato attuale, non permette certamente di aspettarsi un miglioramento dei dati, seppur in febbraio si sia vista una stabilizzazione nella situazione occupazionale, anzi se perdurasse l’incertezza è credibile che si assisterà a una crescita del tasso di disoccupazione dovuto ancora alle dinamiche sopra descritte.
Benché comprensibile, infatti, la richiesta sindacale di una proroga ulteriore del blocco dei licenziamenti, questa non sarà che un palliativo per rimandare l’inevitabile, sempre che non si riesca a uscire dall’ottica emergenziale e si cominci a programmare un percorso certo di riapertura sia delle attività economiche sia della libera circolazione delle persone che, credibilmente, sarebbe, invece, prodromico a un boom economico.