Con la Nota di Aggiornamento del Documento di Economia e Finanza (NADEF), che deve essere approvata entro il 27 settembre, si apre la corsa per la redazione, la votazione e l’approvazione della Legge di Bilancio dello Stato.
Ogni anno, dopo la pausa estiva, si “aprono i balli” per la ricerca delle coperture necessarie a portare avanti il programma di governo e per far quadrare i conti in un clima non certo facile come quello italiano, con alti livelli di spesa e di debito.
Non si può nascondere che le premesse non siano certo incoraggianti perché a fronte di una buona performance, finora, del sistema economico italiano, che ha permesso in due anni di riprendersi dalla caduta derivata dalle misure contenitive per la pandemia, le previsioni per i prossimi mesi sono di un forte rallentamento dovuto, in primis, alla politica monetaria della BCE che con la sua stretta per contrastare lo shock inflazionistico derivante, soprattutto, dalla crescita dei prezzi delle materie prime durante la seconda metà del 2021 e dall’impennata dei costi energetici dopo l’avvio del conflitto russo-ucraino sta spingendo tutta l’euro-area in recessione.
A questo vanno aggiunti i buchi lasciati dai provvedimenti bandiera del governo giallo-rosso che sono andati ben più in là del preventivato, ma ci torneremo dopo. Le prime dichiarazioni del governo, in merito agli obiettivi della Legge di Bilancio, sono sicuramente incoraggianti perché si prefigura una manovra prudente e lineare, focalizzata su pochi punti ben definiti e strategici sia nell’ottica di rilancio e consolidamento della ripresa del Paese sia, nel caso peggiore, di contrasto alla recessione ventilata per i prossimi mesi.
Gli obiettivi principali, quindi, potranno essere indicati in salari, sanità, famiglia e pensioni.
La questione salariale è, forse, quella che porta un’attenzione maggiore da parte della popolazione italiana perché è centrale, dopo 30 anni di decrescita delle remunerazioni in termini reali è evidente che il rilancio dell’economia non possa prescindere da una crescita anche cospicua dei salari.
Qualcuno, anche correttamente, potrebbe obiettare che in Italia ci sia un problema di produttività e che se questa non salisse i salari non potrebbero aumentare, tanto meno per decreto ma… sì, c’è un ma!
Pensare di non aumentare i salari senza prima aumentare la produttività è un uroboro, un serpente che si mangia la coda, poiché il primo stimolo all’aumento della produttività è la domanda interna che s’innalza sia per un incremento della capacità di spesa sia perché le aspettative sul futuro siano migliorate; e queste ultime come migliorano?
Bingo! Con una ragionevole certezza che la situazione economica futura sia migliore, contrariamente la spesa diminuirà aumentando il risparmio per fronteggiare tempi più difficili e questo porterà a una diminuzione della domanda e a una minore redditività dei mezzi di produzione, tra cui il lavoro.
Il rilancio dei salari è, quindi, fondamentale ma come fare se questi non possono essere aumentati per decreto? Semplice, riducendo il prelievo fiscale e qui sta il punto cardine del progetto del governo che va nella direzione della strutturalità del taglio del cuneo fiscale; sono pochi soldi, si potrebbe dire, ma sono un inizio importante.
A questo si unisce il progetto per degli specifici interventi a sostegno della famiglia e della natalità come l’introduzione del “quoziente famigliare”, quindi con l’imposizione non legata al reddito personale ma a quello complessivo della famiglia, e di un reddito di infanzia/assegno di gioventù che, però, non si capisce se vada a sommarsi o a sostituirsi all’attuale assegno unico; ma si tratta ancora di ipotesi non ancora strutturate benché già ventilate per un possibile testo della legge.
La sanità è, poi, uno dei punti dolenti da sempre. In tanti parlano di continui tagli alla spesa ma, in realtà, fino ad oggi si sono fatti solo tagli agli incrementi di spesa nonostante il costo medio pro capite non sia assolutamente elevato e sia perfettamente in linea con la media OCSE in termini di peso sul PIL, ma è nettamente inferiore in termini assoluti.
La spesa pubblica sanitaria si attesta al 7,3% del PIL e, solo in Europa, spendono ben più di noi la Germania (10, 9%), la Francia (10,3%), lo UK (9,9%) e la Spagna (7,8%) però il vero problema, come rilevato da chiunque, anche solo per l’esperienza personale, è dato dall’efficienza che, dopo i difficili mesi segnati dal Covid, è peggiorata ulteriormente portando le liste d’attesa per visite ed esami, in convenzione con il SSN, a tempi estremamente dilatati, fin troppo per delle prestazioni mediche diagnostiche che potrebbero essere anche salvavita. Ecco che l’intervento, ora, diviene essenziale per riportare il sistema sanitario a un livello di servizio accettabile, cosa che, oggi, non è garantito per nessuno, salvo che rivolgendosi, come solvente, a prestazioni private.
Infine, si arriva alle pensioni. Da quando ho memoria si parla di pensioni, prima come strumento per spingere il ricambio generazionale, poi, dopo la crisi del 1992, come un peso sempre più elevato per i conti dello stato. Sono stati fatti diversi interventi sin dalla fine del secolo scorso, dalla Riforma Dini, alla “Legge Fornero”, a “quota 100” e ora?
Il vero peccato originale è stato nella trasformazione del sistema da capitalizzazione a ripartizione oltre mezzo secolo fa e, oggi, ogni correttivo serve solo a stabilizzare questo costoso e inefficiente sistema. Non è una questione di “quote” ma strutturale e, benché in un periodo di crescita demografica, un sistema a ripartizione sia più che sostenibile, già in fase di stasi mostrerebbe le crepe per, poi, diventare una zavorra sui conti pubblici in caso di decrescita della popolazione come succede oggi.
Qualsiasi provvedimento, viste le scarse finanze disponibili, oggi, sarà una mera pezza a un sistema che difficilmente sarà sostenibile in futuro, vedremo, poi, quali saranno le reali intenzioni di questo governo.
Su questo quadro, già non semplice, però ecco cadere un vero e proprio macigno che è l’eredità del periodo dei bonus e dell’helicopter money, per dirla alla Milton Friedman, dei governi Conte. Se il continuo indebitamento, come se non ci fosse un domani si potrebbe dire, in epoca Covid ha dato dei grossi problemi arrivando al 150,8% del PIL ma la crescita economica degli ultimi due anni e le politiche attive sia del governo Draghi sia dei primi mesi del governo Meloni hanno permesso che decrescesse di oltre 7 punti percentuali, i bonus edilizi hanno creato una voragine nei conti pubblici enormi.
Non abbiamo parlato di PNRR ma se le stime fossero esatte solo l’ecobonus 110% cuberà la metà dei fondi riservati all’Italia da parte del programma NGEU. È evidente che in questa situazione i progetti del governo dovranno essere ripensati in un’ottica più che prudenziale dovendo ancora finire di spesare il costo di questi interventi non esattamente ben strutturati, diciamo, e che rappresentano una vera spada di Damocle sulla testa di chi sarà chiamato, in queste settimane, a redigere la NADEF prima e il progetto di Legge di Bilancio, poi.