Non piangere, ne farai un altro, forse è stato meglio così”. Questo è ciò che più frequentemente si sentono dire i genitori di un figlio volato in cielo durante la gravidanza. Alla loro richiesta di poter seppellirne i resti ricevono in genere risposte evasive e scoraggianti. Ormai è provato che la morte prenatale provoca un vero e proprio lutto, al pari di quello avvenuto successivamente. Una separazione da elaborare e condividere. Soffocare la sofferenza non aiuta a risolverla, negarla non fa altro che radicarla nel profondo.
Quel piccolo embrione umano, poi feto dopo le otto settimane di gestazione, si stava facendo spazio nel ventre accogliente della madre quando un evento esterno o una situazione patologica lo hanno strappato alla vita. La sua espulsione, provocata o spontanea, ne segna la separazione fisica dalla madre. Ne consegue la presenza di un cadavere umano del quale è necessario in qualche modo occuparsi. Generalmente viene gettato fra i rifiuti dell’ospedale, insieme a garze ed aghi. Solo se ha superato le venti settimane di gestazione viene regolarmente sepolto, spesso senza il coinvolgimento dei genitori.
Tuttavia la legge italiana prevede la possibilità che i parenti facciano richiesta di potersene occupare direttamente, fin dall’inizio della gravidanza (art. 7, D.P.R. 285/1990). Una circolare del Ministero della Salute sostiene che sarebbe da preferire la sepoltura anche in assenza della richiesta dei genitori, in quanto altre forme di smaltimento urtano la sensiblità comune. Si tratta di un gesto di pietà incoraggiato dal magistero della Chiesa (Donum Vitae e Dignitas Personae) ma ancora poco conosciuto e praticato. Per volere di don Oreste Benzi la sua Comunità Papa Giovanni XXIII si offre per sostenere in ogni modo coloro che desiderano compiere questo gesto.
I genitori che hanno realizzato questa scelta testimoniano di averne avuto beneficio. Col rito funebre ci si sente accolti da Dio, voluti bene e compresi nel proprio dolore dalla Chiesa, da parenti ed amici. Oltre a consegnare a Dio il proprio figlio è un modo per collettivizzare il lutto, per condividere la propria sofferenza e portarla insieme. Poter vedere la salma del proprio bimbo, avere una tomba su cui piangerlo consente di far uscire il proprio dolore. Offre la possibilità di dare un volto e un nome ad una sofferenza che si sente ma di cui non si ha spesso la capacità di verbalizzare. Non ci sono parole poiché non siamo abituati a parlarne.
Fu nel Concilio Vaticano II che i padri conciliari proposero la formulazione di un rito specifico per il funerale dei bambini. Ne scaturì uno appositamente creato per quelli morti senza battesimo, recentemente rivisitato. Un passo deciso per formulare un’alternativa di salvezza alla teoria del Limbo. E’ così che viene prospettata la possibilità che Dio agisca in modo straordinario per donare la salvezza a coloro che non hanno potuto ricevere il battesimo. Il desiderio della loro salvezza eterna insito nei genitori e nella Chiesa si fondono così nella consegna a Dio dell’anima creata per l’immortalità e del corpo alla terra in attesa della resurrezione dai morti.