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L’importanza di preservare i dialetti

Per celebrare la “Giornata Nazionale del Dialetto e delle Lingue locali”, venerdì 17 gennaio la prima storia del numero 3608 di “Topolino” verrà pubblicata in napoletano, catanese, milanese e fiorentino. Si tratta di una bella notizia per tanti appassionati del celebre fumetto e soprattutto per i collezionisti. Certo, non è detto che i giovani lettori siano in grado di capire ogni parte del testo, considerato che il dialetto viene parlato raramente, in contesti ristretti, quasi mai scritto o letto, in pochissimi casi studiato. Forse qualche possibilità in più avrà l’edizione in napoletano per una maggiore diffusione dovuta alla musica leggera e neomelodica.

Da tempo si dibatte sull’importanza della conservazione dei dialetti e dell’insegnamento degli stessi nelle scuole, ma a parte alcuni progetti non c’è una linea comune; del resto va osservato che, se da un lato alcuni sono vere e proprie lingue, dall’altro anche all’interno delle stesse provincie, a pochi chilometri di distanza, differiscono tra loro. La musica e la letteratura sono stati e sono i principali “strumenti” di protezione e diffusione, offrendo un genere vero e proprio, frutto per lo più di uno studio ricercato e di una scelta “alta”, non certo popolare, che ha coinvolto pure i fruitori stranieri. Scriveva, infatti, Cesare Pavese: “Il dialetto usato con fini letterari è un modo di far storia, è una scelta, un gusto”. Ciò che non va dimenticato è che la “questione della lingua” in Italia ha attraversato diversi secoli e fatto confrontare famosi personaggi, dunque è un bagaglio di storia e tradizione che va conosciuto – e questo nella scuola secondaria di II grado si studia – senza inutili considerazioni nostalgiche. In tal senso ci viene in aiuto Italo Calvino: “Finché l’italiano è rimasto una lingua letteraria, non professionale, nei dialetti (quelli toscani compresi, s’intende) esisteva una ricchezza lessicale, una capacità di nominare e descrivere i campi e le case, gli attrezzi e le operazioni dell’agricoltura e dei mestieri che la lingua non possedeva. La ragione della prolungata vitalità dei dialetti in Italia è stata questa. Ora questa fase è superata da un pezzo: il mondo che abbiamo davanti, – case e strade e macchinari e aziende e studi, e anche molta dell’agricoltura moderna, – è venuto su con nomi non dialettali, nomi dell’italiano, o costruiti su modelli dell’italiano, oppure d’una interlingua scientifico-tecnico-industriale, e vengono adoperati e pensati in strutture logiche italiane o interlinguistiche”.

Abbiamo conquistato un’unica lingua e tutto ciò che comporta l’unità linguistica non senza fatica, ma – possiamo dire – “siamo fatti della stessa sostanza dei dialetti”, quindi celebrarli per salvarli ne vale la pena. Afferma Italo Svevo: “La nostra vita avrebbe tutt’altro aspetto se fosse detta nel nostro dialetto”. Per questo motivo bisogna evitare che i dialetti si perdano tra i gerghi e gli slang, soprattutto che vengano identificati come tipici delle periferie degradate e spesso intestati solo ad una parte della popolazione, quella del “popolino”. Del resto dice Severgnini: “Il dialetto non si salva solo con le poesie, le commedie e i festival. Si tramanda anche infilandolo nel discorso, come un cetriolino in un panino. È un po’ snob, lo ammetto. Ma mica possiamo parlare tutti inglese”.

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