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L’emorragia dell’Italia

Il sintomo più importante per capire quando una nazione è ammalata, è l’andamento della propria demografia. La maggiore differenza tra la somma dei deceduti ed emigrati, rispetto al numero minore di coloro che nascono. Il Bel Paese ha contratto questa malattia da tempo, conseguenza di nostri errori degli ultimi decenni.

In questo triennio, per la prima volta dopo un secolo, i dati demografici dell’Italia strapiombano in basso, un fenomeno così evidente non si manifestava dalla fine della prima guerra mondiale. Ma dopo la “grande guerra” si contavano ben 600 mila caduti in battaglia, poi essendo i giovani soldati al fronte, difficilmente in quel triennio nacquero bambini, ed a tutto ciò, disgraziatamente, si aggiunse la diffusione della pandemia “la spagnola” che mieté oltre 300 mila vittime in Italia e circa 5 milioni in Europa.

Oggi, senza guerre, con la medicina che ha raggiunto vette inimmaginabili per nostri antenati, con un benessere che ha di fatto debellato la mortalità infantile e che ha posto gli italiani al secondo posto nel mondo per longevità, davvero e’ molto preoccupante ciò che l’Istat ci racconta con i dati pubblicizzati in questi giorni.

Sono infatti 2 i fattori molto negativi che danneggiano il nostro futuro: le coppie non progettano figli attestandosi ad uno striminzito 1,3 figli medi per famiglia – nonostante l’apporto importante delle coppie immigrate – ; l’emigrazione dei nostri giovani verso i Paesi europei e extraeuropei ha avuto un incremento a proiezioni geometriche.

Se i trend di questi anni non dovessero cambiare, andremo dritti dritti verso un futuro disastro. I conti sono presto fatti; tra 20-30 anni la nostra comunità perderebbe un terzo dei propri abitanti con conseguenze apocalittiche per la stabilità del welfare state e della disponibilità sufficiente di persone per il funzionamento delle fabbriche e dei servizi. La classe dirigente sinora non si è posto il problema. Ma neanche la enorme difficoltà delle giovani coppie a mantenere figli con costi insostenibili, senza sostegni pubblici e nella persistente carenza di servizi per l’infanzia.

Si spera che si comprenda che la situazione dovrà cambiare radicalmente perché la prolificità delle giovani famiglie non è solo affare privato, ma riguarda anche l’interesse pubblico.

L’altra causa, quella dell’emigrazione dei nostri giovani, molti dei quali altamente specializzati, ci impoverisce pericolosamente; anzi le zone già in difficoltà, rischiano la ulteriore desertificazione economica e civile come accade da tempo nei territori meridionali.

Nelle stanze del potere nostrano però si discute di altro, come se queste sventure fossero dei fatti occasionali e facilmente superabili. Queste avversità sono il risultato dell’avere trascurato i capisaldi principali dell’economia, che ci ha spinti nella preoccupante condizione di unico Paese Ocse ad avere persistenti dati negativi economici, circostanza che ci espone pericolosamente nella competizione economica rispetto agli Stati nostri concorrenti.

L’Italia ha bisogno di un forte cambiamento, ma di quelli capaci di farci tornare alle nostre antiche certezze di impostazione economica e culturale. La confusione dell’ultimo ventennio fondate sull’individualismo e sulla distruzione dei fondamenti storici della nostra cultura, ci sta deviando circa gli appuntamenti del nostro avvenire e sono alla base dell’indebolimento morale e spirituale e conseguentemente del degrado della nostra economia.

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