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L'economia che si ricicla…

La querelle sugli inceneritori che si è aperta all’interno della maggioranza ha mostrato, indirettamente, come il concetto di “economia circolare” sia uno dei cardini su cui si stia indirizzando il dibattito sul modello sviluppo, non solo italiano ma mondiale.

Un punto che occorre chiarire, però, è proprio quello relativo alla definizione di questo modello che, spesso, viene frainteso. Prendendo una definizione data da Edo Ronchi, già ministro dell’ambiente nei governi Prodi e D’Alema, si parla di economia “lineare” quando “il prodotto è la fonte della creazione del valore; i margini di profitto sono basati sulla differenza fra prezzo di mercato e il costo di produzione; per aumentare i profitti si punta a vendere più prodotti e a rendere i costi di produzione più bassi possibile. L'innovazione tecnologica punta a rendere i prodotti rapidamente obsoleti e a stimolare i consumatori ad acquistare nuovi prodotti”, in partica la si potrebbe definire un modello di mero consumo.

L’economia “circolare”, invece, secondo la definizione data dalla Ellen MacArthur Foundation è “un’economia pensata per potersi rigenerare da sola. In un’economia circolare i flussi di materiali sono di due tipi: quelli biologici, in grado di essere reintegrati nella biosfera, e quelli tecnici, destinati ad essere rivalorizzati senza entrare nella biosfera”.

Cosa vuole dire questo? Semplicemente che un modello circolare impone la valorizzazione e l’ottimizzazione di tutti i materiali che rientrino nel ciclo produttivo in cicli successivi, riducendo al massimo gli sprechi.

Non sarebbe una bestialità, quindi, parlarne, con un livello massimo di semplificazione, come, da una parte, la progettazione dei nuovi beni da immettere sul mercato come di lunga durata e, dall’altra, la valorizzazione degli scarti e dei rifiuti. Ciò crea un vantaggio duplice sia dal lato produttivo, permettendo di reperire materiali a basso costo derivanti dalla raccolta dei rifiuti e dal loro riciclaggio, sia dal lato ambientale contribuendo a minimizzare l’inquinamento prodotto dal consumo di beni e servizi o dal procacciamento dei materiali alla base dei processi produttivi; questo, ovviamente, tralasciando la parte relativa alle energie rinnovabili che meriterebbe un discorso ben più approfondito.

Detta così sembrerebbe, quindi, che nel dibattito aperto tra Matteo Salvini, che vorrebbe un inceneritore in ogni provincia, e Luigi Di Maio abbia ragione quest’ultimo, che vorrebbe spingere ulteriormente sulla raccolta differenziata senza pensare a nuovi impianti di smaltimento rifiuti, ma non è così.

La differenziata che è basilare per permettere un corretto riciclo dei materiali provenienti dai rifiuti, da sola non basta. Non tutti i rifiuti sono riciclabili e, in particolare, i rifiuti organici necessiterebbero del passaggio in impianti di compostaggio per poter essere reimmessi nel sistema economico (e sulla creazione di questi il Movimento 5 Stelle, usando un eufemismo, non è esattamente d’accordo). Questi, però, potrebbero anche essere caratterizzati da una concentrazione di diossina e metalli pesanti che ne renderebbe impossibile il reimpiego; le uniche soluzioni, a questo punto sono la termovalorizzazione o la discarica.

Parlo di termovalorizzazione e non di incenerimento perché, oggi, è di questo che si deve discutere, l’incenerimento tout court non è la soluzione migliore e il passaggio dei rifiuti, se adatti, non riciclabili in termovalorizzatore permetterebbe ancora di ricavare valore da essi tramite l’energia prodotta (elettrica o termica) e con le ceneri che potrebbero (anche qui, però, il condizionale è d’obbligo) essere ancora reimpiegate.

Diciamo, quindi, che in un’ottica di circolarità la raccolta differenziata e il riciclo dei materiali è solo una parte, possibilmente la più importante, del sistema; viene, poi, la termovalorizzazione per la quota di rifiuti adatta ad essa e non riciclabile efficientemente in altro modo (pensate solo alla carta e a quanto si inquini con il suo processo di riciclaggio, ad esempio) e, infine, la discarica per tutti gli altri rifiuti, ma quest’ultima dovrebbe essere considerata solo un’ipotesi residuale.

Ha ragione Salvini, quindi? Nemmeno lui ha ragione in realtà, benché un progetto organico di impianto di termovalorizzatori su tutto il territorio nazionale sarebbe necessario.

Non ha ragione, però, perché ne propone uno per provincia, anche se questa potrebbe essere stata una mera semplificazione retorica, poiché per poter funzionare efficientemente un termovalorizzatore avrebbe bisogno di una certa “massa d’impatto”; un quantitativo minimo di rifiuti in entrata che ne renda sostenibile la gestione ed efficiente la produzione energetica e il funzionamento dei filtri che impediscono che i gas risultanti dal processo di combustione possano inquinare l’ambiente. Per questo sarebbe più utile la creazione di distretti serviti da un impianto di termovalorizzazione anche comprendenti più province, garantendo così il corretto funzionamento.

Come mostrato fin qui, quando si parla di economia “circolare” si finisce sempre a disquisire sul ciclo di vita e di riutilizzo dei rifiuti e su un’idea di produzione di beni durevoli contro la mera economia di consumo. Ma i due modelli, quello di economia consumistica, appunto, o del benessere e quello di circolarità, non sono veramente in antitesi e il secondo, che è diventato anche uno degli indirizzi principali nelle politiche di sviluppo della Cina per dire, è un metodo per ottimizzare la produzione, riducendo anche le scorte con conseguenti e costosi fondi di magazzino. Certo non mancano delle distorsioni ideologiche, solitamente spinte da una concezione semplicistica dell’ambientalismo e dell’ecologia, ma parlare di circolarità in economia non implica ipotizzare una “decrescita felice”, come fa Serge Latouche ad esempio, ma un modello sostenibile di crescita che spinga più su servizi e valore aggiunto dei beni che sulla mera produzione di questi ultimi.

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