“L’immaginazione al potere”, dai più declinato nella versione sessantottina “la fantasia al potere” al punto da essere diventato uno degli slogan emblema di quella stagione, probabilmente non c’è mai arrivata davvero. Forse ha sfiorato le anticamere, le segreterie dei partiti, ma non è entrata nelle stanze dei bottoni. E dire che con quella considerazione il filosofo Herbert Marcuse, diventato celebre fra gli studenti del ’68, pensava davvero di sollevare il mondo. In fondo, per restare a Marcuse, la ragione e il linguaggio non sono più in grado di trascendere la realtà e di opporre un “grande rifiuto” al modello vigente, per questo la filosofia deve appellarsi all’immaginazione, unico strumento capace di comprendere le cose alla luce della loro potenzialità.
Matteo Renzi, moderno epigono di quei sessantottini che sognavano di governare con la fantasia, in questi giorni è riuscito ad offrire alla cronaca una versione rivista e corretta di tutto ciò. Nel giro di pochi mesi è stato capace di dire cose diverse fra loro, riuscendo comunque a centrare il bersaglio. Occhio alle date, prego, sono importanti quanto le parole. Il 22 febbraio del 2015 Renzi va in tv per avvisare il Paese: “Se la Rai è un pezzo dell’identità culturale del Paese allora non può essere disciplinata dalla legge Gasparri, è proprio ontologico”. Cinque mesi dopo, durante il viaggio in Giappone, offre un’altra versione. 4 agosto 2015: “Non c’erano alternative temporali al rinnovo, la prorogatio si spiega male per un’azienda da 3 miliardi. Alla Gasparri non c’erano alternative, la forzatura sarebbe stata non rinnovare il cda. Ora il gioco è in mano al Parlamento con la Vigilanza”. Com’è facile intuire si tratta di due concetti antitetici fra loro. Eppure sono stati pronunciati dalla stessa persona, sullo stesso argomento.
Come si fa presto a cambiare idea. E non è una variazione di poco conto, dato che Renzi smentisce se stesso; si tratta della prova plastica di come il potere modella le parole a seconda della circostanza e della convenienza. E poco importa se gli analisti, ora, sono tutti impegnati a tracciare le coordinate per dire che Renzi perde e Gasparri vince, perché il vero sconfitto è il Paese.
Con questo sistema la Rai resta al servizio dei partiti e non di coloro che pagano il canone. La legittima aspirazione ad avere un prodotto migliore, in linea con i tempi, difficilmente troverà un’applicazione pratica. Mai come oggi la politica sente il bisogno di poter contare su mezzi d’informazione che siano house organ e non i cani da guardia del potere. Se lo fossero forse avremmo un sistema diverso.
Per quanto di parte, e sostanzialmente parziale dato che con la riforma i dipendenti dell’azienda avrebbero un loro rappresentante nel cda, il commento dell’Usigrai fotografa perfettamente la situazione. Secondo Vittorio Di Trapani, segretario del sindacato dei giornalisti Rai, “ancora una volta si è applicata la logica spartitoria della partitocrazia. Non è una questione di nomi ma di metodo scelto, quello del bilancino tipico dei partiti”. Che, nel linguaggio corrente, si chiama manuale Cencelli o lottizzazione.
“Tutto questo senza avere neppure minimamente discusso il mandato da affidare al nuovo gruppo dirigente. Senza quindi rispondere alle due domande fondamentali per quanto riguarda il servizio pubblico: cosa fare e con quali finanziamenti”.
I veri temi, come è facile intuire, restano nel cassetto delle belle intenzioni. Dei “vorrei ma non posso”. E tutto questo non capita solo con la Rai. Sul tema delle pensioni, solo per restare a uno degli argomenti che incidono sulla qualità della vita degli italiani, abbiamo assistito allo stesso film. Un bonus una tantum è stato presentato come rimborso mentre i mancati adeguamenti sono il frutto degli errori degli altri.
E che dire dei professori? Chi non accetta il trasferimento forzato perde il posto. Certo non siamo all’immaginazione al potere, ma all’uso strumentale della semantica sì. Troppe finte riforme vengono spacciate per grandi innovazioni.