La storia alle volte ci stupisce. Questo anno giubilare arriva quasi sfumato dalla rilevanza di eventi storici, epocali, che si accavallano a una velocità che rende quasi impossibile anche soffermarsi su ciascuno di essi. Così la storia sembra sfuggirci di mano, in un tempo così accelerato da non sembrare più il tempo come lo conosciamo. Ma non può non lasciare a bocca aperte che l’anno giubilare giunga mentre scopriamo in Siria, guardando la televisione, l’opera di una costruzione sistematica per annichilire l’uomo, eliminare anche le tracce della sua esistenza con sistemi così efferati da rendere difficile anche descriverli: esseri umani venivano inseriti in grandi presse per fracassarli e quindi scioglierli nell’acido. Tra i sopravvissuti c’è chi non sa chi sia, come si chiami, chi ha tremato anche all’idea di essere liberato. In questi stessi giorni arriva l’anno giubilare, che porta con sé soprattutto una parola: misericordia.
E’ lei, la misericordia, la protagonista di questa esigenza giubilare che sento crescere in questi giorni dentro di me. Uscire da questo tempo che corre troppo e non consente di sapere tutto ciò che ci fa sapere troppo velocemente, e ritrovarsi immersi senza il tempo di coglierlo in questo enorme bisogno di misericordia. Solo questo rasserenerebbe lo sguardo su un mondo in corsa tumultuosa, e nel quale emergono sempre più distanti due poli inconciliabili, che urlano il bisogno di risolvere tutto subito, perché il problema, ogni problema, si è fatto insopportabile. E’ come se una corda fosse giunta alla sua estrema, possibile estensione, o non restasse che desiderare che si spezzi. E’ questo che ci priva di misericordia, questa urgenza di tagliare con la lama la questione nella quale ci sentiamo calati fino in fondo e alla quale occorre porre termine, definitivamente. E’ così che esce dal nostro orizzonte la sola soluzione praticabile, per noi e per gli altri: misericordia.
Confesso che questa volta l’anno giubilare che arriva non mi induce a pensare a ciò che si ricorda sempre del antico suo senso: il riposo dei campi, il riposo da concedere alla terra per poi consentirle di tornare più vigorosa, rigogliosa, forte. Questo riposo noi non lo sappiamo neanche immaginare, tanto che l’Unione Europea – per fare un esempio – ha firmato un trattato commerciale con i Paesi de Mercosur -Brasile, Argentina Uruguay e Paraguay che, favorendo semplicemente maggiori esportazioni agroalimentari nei nostri Paesi da quelli, favorirà di tutta evidenza un’ulteriore deforestazione amazzonica.
L’anno giubilare che arriva non mi induce neanche a pensare alla sua fondativa liberazione degli schiavi, condizione umana impensabile e inaccettabile. Questa liberazione che sarebbe indispensabile nei nostri campi, nei tanti luoghi dove le nuove schiavitù sono realtà, noi non sappiamo neanche immaginarla, perché quando emerge il tema subito viene sommerso nelle nostre menti da altri eventi, sovente tanto storici quanto quotidiani, o dalle nostre angustie così presenti da scacciare ogni altra angustia.
Solo la misericordia, misericordia per noi, per la nostra inconscia ansia di uscire da un mondo che si spacca, riesce a riportarci a prenderci il tempo per guardare la terra, la sua urgenza di riposo, di cura, di guardare i nuovi schiavi, disumanizzati; perché ci chiede di fermarci e di guardare noi stessi, la nostra sete di misericordia. Una sete così disperata che non la riconosciamo. E si rimuove che ogni naufragio non soccorso nel nostro mare di chi fugge è un naufragio nostro, delle nostre antiche civiltà, non soccorse.
Sì, tutte le odierne aggressività ci dicono che vaghiamo disperati perché non troviamo la grande Perdonanza, come quella di Celestino V: forse dovremmo fermarci per riconoscerne il bisogno, ma sembra impossibile. Allora mi colpisce che papa Francesco, ricordando proprio la perdonanza, indicendo questo giubileo abbia scritto: “La Chiesa già sperimentava, dunque, la grazia giubilare della misericordia. E ancora prima, nel 1216, Papa Onorio III aveva accolto la supplica di San Francesco che chiedeva l’indulgenza per quanti avrebbero visitato la Porziuncola nei primi due giorni di agosto. Lo stesso si può affermare per il pellegrinaggio a Santiago di Compostela: infatti Papa Callisto II, nel 1122, concesse di celebrare il Giubileo in quel Santuario ogni volta che la festa dell’apostolo Giacomo cadeva di domenica. È bene che tale modalità “diffusa” di celebrazioni giubilari continui, così che la forza del perdono di Dio sostenga e accompagni il cammino delle comunità e delle persone”.
Sì, il cammino “delle comunità e delle persone”. Questo mi sembra ciò di cui abbiamo maggiormente bisogno: riscoprire la comunità non come gabbia identitaria, chiusa, e la persona, anche individuo, ma non un io sovrano, sempre più orfano, solo con il suo telefonino.