Il calcio moderno sta cambiando, anche in Italia. Anzi, è già cambiato. Un tuffo nel passato come negli anni Ottanta quando il nostro campionato era tra i più affascinanti del pianeta. Maradona, Platini, Gullit, Van Basten, Zico, Falcao, il meglio era abbonato alle nostre squadre. Altri tempi, forse irripetibili. Per tanti motivi. Neppure l’arrivo di Cristiano Ronaldo è riuscito a cambiare la storia. Arrivano grandi calciatori, ma ripetere gli anno d’oro sarà impresa impossibile. Tanti i motivi. Allora non c’era il fair play finanziario e i presidenti a fine stagione mettevano in cassa soldi freschi per pareggiare il bilancio. Oggi non si può, o meglio non si potrebbe, ma qualche stratagemma è stato trovato (fatta la legge, trovato l’inganno), ma ne parleremo più avanti.
Oggi l’Italia non attira come la Spagna o come l’Inghilterra. Colpa della tassazione? Assolutamente no, perché, tanto per entrare a gamba tesa sul tema, Cristiano Ronaldo grazie ad una norma fiscale italiana introdotta dalla Legge di Stabilità 2017, verserà nelle casse del fisco italiano una tassa forfettaria pari a 100.000 euro per ciascun periodo di imposta e per tutti i redditi di fonte estera da lui percepiti, indipendentemente dal Paese in cui questi redditi sono prodotti. Addirittura oggi la situazione è persino migliorata grazie al nuovo decreto crescita, destinato ai “rimpatriati”. Ne hanno giovato Juve e Inter che hanno ingaggiato Sarri e Conte: legge alla mano, dal 1 maggio chi si trasferisce in Italia dopo una parentesi estera, può essere tassato del 30% del compenso da lavoro dipendente per un periodo di 5 anni purché rimanga sul territorio nazionale almeno per due anni. Prendendo in esame Conte, prima dell’entrata in vigore della legge, sarebbe costato all’Inter almeno venti milioni ma adesso ne costerà appena 12 visto che sarà tassato solo il 43% del 30% del reddito. Un affare. Ecco perché adesso un Neymar o un Guardiola sono più appetibili rispetto al passato.
E allora perché non vengono in Italia? Discorso lungo che il tecnico del City ha più volte spiegato. Innanzitutto questione di appeal, e in questo caso la Premier non la batte nessuno. In Italia da otto anni domina una sola squadra, le altre fanno da cornice. In Inghilterra ogni anno può succedere di tutto. City e Liverpool si sono giocati la Premier fino all’ultima giornata, i reds di Kloop hanno vinto la Champions, solo qualche anno vinse la rivelazione Leicester. Impensabile da noi che a vincere sia il Chievo. E poi in Premier, comunque vada, apprezzano il bel calcio e nessuno si permette di criticare o contestare un Guardiola solo perché non ha vinto la coppa dalle grandi orecchie. Vallo a fare in Italia dove bastano tre risultati negativi per mettere in croce chiunque. Ecco l’altro motivo della scelta di Guardiola di rimanere al City.
Il calcio italiano, ma quello europeo in generale, è sotto la spada di Damocle delle plusvalenze. Bilanci in rosso, alcuni anche profondo, nascosti da operazioni fittizie, che nascondono ma non risolvono. Succede ovunque, ma in Italia siamo maestri, almeno in questo, per camuffare i bilanci. Ed ecco spiegato il valore delle plusvalenze. Che a volte portano a cedere i gioielli di famiglia, indebolendo la squadra, pur di pareggiare i conti. A fine giugno il conto delle plusvalenze in Italia era di poco più di 700 milioni, atti a pareggiare i conti ma con i bilanci reali in rosso. In pratica bisogna considerare una spesa di 1 a 4 rispetto alla dichiarazione di cessione.
Esempio, l’affare Spinazzola-Luca Pellegrini (29 milioni primo, 22 il secondo) ha portato plusvalenze forti ai due club, ma alla Juve in pratica sono entrata solo 7 milioni, peraltro pagabili in tre anni. Come nello scambio Manolas-Diawara, con il Napoli che ha pagato i 36 milioni di clausola alla Roma per poi cedere, dopo il 30 giugno, Diawara a 21 che i giallorossi ammortizzeranno nel prossimo bilancio.
C’è poi un’altra strada, che consente di ottenere lo stesso beneficio senza però impoverire la rosa, ovvero cedendo ragazzini, non ancora affermati grazie ad una rete di rapporti che permette operazioni notevoli. Come quella che ha portato al Genoa Pinamonti (18 milioni) che il Genoa verserà tra un anno ma che vanno subito a bilancio. Come la cessione di Sturaro dalla Juve al Genoa per 18 milioni, quando la Juve lo acquistò anni prima a soli 4 milioni senza che il calciatore venisse valorizzato in bianconero al punto da giustificare la spesa da parte del Genoa. Affari di società e di bilancio. Già, il bilancio con la parola d’ordine da salvare ad ogni costo. Poi il riscontro con la realtà, quella di introiti non produttivi sul fronte monetario, che lasciano “buchi” enormi nelle casse delle società. Perché in molti saranno anche in regola con il fair play, ma sempre in rosso con il conto in banca.