L’intolleranza è dovuta alla paura del diverso, che di questi tempi non è manifestata solo nei confronti dei rom ma anche degli immigrati, di tutto ciò che può creare disordine;. Ciò che fa paura viene allontanato, e per questo i campi nomadi sono relegati ai margini delle città. Più volte li ho visitati, ce ne sono alcuni autorizzati, che hanno quindi anche acqua e corrente, ma ce ne sono anche di spontanei, lungo i fiumi, dove i bambini vivono in condizioni disumane. D’altronde nell’immaginario collettivo c’è che tutti gli zingari rubano, e dunque quando si ha notizia di un reato compiuto da un nomade ecco scattare la condanna dell’intero popolo, dimenticando di contare tutti i reati compiuti dagli italiani.
In questo contesto pesano da una parte la mancanza di una politica d’integrazione e l’assenza di una programmazione in cui ci sia il pieno riconoscimento della cultura e dell’identità rom (ci sono percorsi di integrazione che avvicinano la popolazione indigena a questa cultura), dall’altra anche un impegno a far sì che anche i rappresentanti delle famiglie rom capiscano che devono comunque integrarsi, pur mantenendo la propria identità.
Certo, nel loro dna c’è il nomadismo, che ha però anche una valenza positiva; culturalmente, filosoficamente, teologicamente, spiritualmente l’uomo sentendosi pellegrino ha una libertà che altre culture non danno. Perfino l’enciclica del Papa parla di questo dei danni – anche ecologici – che un’impostazione rigida, iperstrutturata porta con sé.
Come Comunità Papa Giovanni XXIII non solo li andiamo a trovare nei campi dove sono, ma li ospitiamo spesso nei terreni adiacenti alle nostre case-famiglia, cercando di sostenere i loro nuclei familiari, in modo da permettergli di mantenere la propria identità e nel contempo socializzare, favorendo anche il contatto con le istituzioni.
Va anche detto che molti se avessero un’opportunità lavorativa la coglierebbero. Questo percorso va incentivato, sviluppato, anche in considerazione del fatto che hanno capacità e competenze che in Italia noi non coltiviamo più… Pensiamo ad esempio al rame, che sanno lavorare e forgiare, così come i metalli in generale, che sono capaci di trattare anche con capacità artistiche. Dunque dei percorsi sono possibili… Ci sono infatti tante associazioni che valorizzano queste competenze, e ci sono nuclei familiari che grazie a questo si sono integrati anche con un’attività lavorativa stabile.
Come comunicare dunque? Superando non solo i pregiudizi ma gli stessi giudizi, cioè non pensare di poter stabilire cosa sia giusto e cosa sbagliato del modo di vivere di un altro popolo. Non a caso don Oreste Benzi aveva chiesto il riconoscimento della cultura rom e sinti perché questo è il primo passo, che dà dei diritti ma esige anche dei doveri.
L’Europa può avere un ruolo importante per il riconoscimento della loro identità. La Chiesa stessa, in particolare Papa Francesco, riconosce spesso tutto il prezioso lavoro fatto dalle organizzazioni come Caritas, Migrante e altre; ciò che manca invece è l’apertura delle parrocchie, che non si sono ancora coinvolte abbastanza in un processo di condivisione con questi fratelli e queste sorelle.