Nella penisola coreana il cristianesimo è sopravvissuto due secoli senza pastori. Eppure il popolo di Dio ha perseverato nella propria appartenenza a Cristo. La fede non ha bisogno di strutture di potere, bensì di persone libere e coraggiose che sappiano essere evangelicamente lievito nella massa. Non si fa altro che parlare di libertà religiosa quasi che fossimo in un Paese a dittatura teocratica. In realtà bisognerebbe parlare di libertà religiosa al contrario e cioè, l’unica vera libertà in materia di fede è quella di sputare metaforicamente in faccia ai cristiani. Nessuno, a parole, è disposto ad ammetterlo ma il pluralismo religioso in Italia significa una sola cosa: sparare accuse e offese verso i credenti, la Chiesa, il Vangelo. Se in altre parti del mondo a proclamarsi discepoli di Gesù si rischia di finire nei sacchi neri della spazzatura, dalle nostre parti il pericolo è un’avversione ammantata di snobistica indifferenza.
C’è infatti un solo gruppo umano che può essere impunemente vilipeso: i cristiani. Non vogliamo certo indulgere al vittimismo però le cronache, politiche e dello spettacolo, sono inequivocabili. E così, mentre i mass media sono indaffarati a scovare usi strumentali della religione in politica, accreditati guru della comunicazione, svillaneggiano la vera fede parodiando sacri rituali e inscenando falsi dialoghi con il Cielo. Pochi ricordano che la parodia è un tipico strumento polemico di certe sette contro la Chiesa. E proprio la Chiesa fin dalla sua nascita viene tirata da una parte e dall’altra dai potenti del momento.
In realtà la barca di Pietro, nella sua millenaria navigazione, non deve pendere né a destra né a sinistra, altrimenti imbarca acqua e rischia di sbandare nella bufera. E invece chi segue Cristo è nel mondo ma non è del mondo. In questa incandescente temperie culturale si avverte la latitanza di un autentico e schietto pensiero cristiano.
A patto però che quando si fa riferimento ad un nuovo umanesimo l’ispirazione venga autenticamente dal filosofo cattolico Jacques Maritain e non da ben più materialistiche correnti di pensiero. Un dato non può essere cancellato: il credente non si identifica in nulla che non sia la sua appartenenza al Vangelo. Purtroppo nella società delle appartenenze gridate chi non si schiera scompare.
E’ per questo che, come documentato in questi intensi giorni anche dai cronisti di In Terris, in pochi hanno ascoltato qualche voce cattolica, principalmente proveniente dal laicato, che avesse davvero qualcosa da dire sulla prospettiva italiana. Che Paese vogliamo? Un Paese in cui non serva ribadire la fedeltà a un concetto astratto come la libertà religiosa, bensì si permetta ai cattolici di testimoniare con le opere la loro dedizione al bene comune affinché l’albero si riconosca dai frutti. Papa Francesco ha delegato ai fedeli laici l’impegno nella vita pubblica nella convinzione che una coscienza cristianamente formata sia il miglior vessillo per una fede socialmente coinvolta nelle contingenze politiche, culturali e antropologiche. Mi viene in mente la lezione di Madre Teresa di Calcutta che lasciò senza parole una potente first lady che le aveva confidato: “Io non farei mai la sua vita”. E l’apostola degli ultimi rispose: “Neppure io farei la sua”.