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La guerra dei buoni pasto

Quella dei buoni pasto è una delle tante guerre dimenticate in atto nel nostro Paese. Anche se la tecnologia è più arretrata (la materia prima è la carta stampata) il problema non è molto differente da quello certamente più moderno della digital money, sul cui maggior uso e più ampia diffusione, il governo Conte 2, inizialmente, faceva affidamento allo scopo di combattere l'evasione.

C’è pur sempre un problema di commissioni a carico degli esercizi convenzionati, con un effetto per loro scomodo, perché se vendono prodotti a un determinato prezzo, l'ammontare che intascano è decurtato dalle commissioni ovvero del corrispettivo che le piattaforme digitali chiedono per il servizio. Il livello delle commissioni a carico della rete degli esercizi convenzionati ha ormai sfondato, in alcuni casi, la soglia del 20%. Non c’è altro Paese nel quale, sui buoni pasto, le cose funzionino così. L’ultimo intervento nell’ambito del codice degli appalti, che avrebbe dovuto ridimensionare alcuni effetti distorsivi, ha sortito risultati diametralmente opposti. Si è ormai innescato un sistema che costa agli esercizi convenzionati, che erogano ogni giorno un servizio indispensabile per i lavoratori, almeno 500 milioni di euro all’anno. Si è arrivati ad un punto di non ritorno.

L'ultima soluzione è quella di rifondare da zero il modello. È quanto chiedono ad una sola voce le tante associazioni delle imprese convenzionate, le quali minacciano di non accettare più buoni pasto se ciò continua a ridurre i loro ricavi. Perché nel frattempo, davanti ai primi fallimenti di società del settore, è sorto per gli esercenti convenzionati un altro problema di non facile soluzione ma di sicura preoccupazione, perché non è da escludere in assoluto che, quando i negozianti, per esempio, si presentano col loro bravo pacchetto di buoni pasto alla ditta fornitrice, essa non sia in grado di tramutare quei pezzi di carta colorata in moneta sonante.

Capita allora che – come al solito – la moneta cattiva scacci quella buona. Per evitare di essere ingannati da aziende che producano buoni pasto, ma che si guardano bene dal restituire almeno in parte la somma di denaro intrinseca nel buono pasto le aziende rinuncino a convenzionarsi. In tale circostanza, il ticket erogato al lavoratore come parziale remunerazione, in natura, della sua prestazione, si trasforma in una cambiale “a babbo morto”, di nessun valore. C’è dunque la necessità di una nuova regolamentazione (parallela a quella trovata per l’abolizione dei voucher).

Ma le norme non risolvono sempre tutto e nella maniera più rapida. Se si va a rovistare nelle cause della crisi del settore, con il rischio che le case produttrici di buoni pasto siano costrette a vendere i loro tagliandi allo scopo di tappezzare le pareti, diventa difficile trovare delle vie d’uscita. Dove casca l'asino? Negli uffici della Consip che è l’ente incaricato degli acquisti di mezzi della pubblica amministrazione e che, pertanto, promuove delle gare di appalto, sia pure per lotti, anche per i buoni pasto riservati ai dipendenti pubblici. Essendo un acquirente molto importante, attraverso le gare al massimo ribasso, diventa il punto di riferimento del mercato, anche nel settore privato. Succede allora che le società del settore siano indotte anch’esse ad abbassare le offerte per ottenere degli appalti, rifacendosi magari sugli esercizi che devono accettare i buoni pasto, in pagamento delle prestazioni erogate: i quali, però, possono decidere di non accettarli più. Non è detto però che i loro clienti siano disposti a sostituire i ticket con moneta sonante. Magari vanno alla ricerca di un ristorante o di un supermarket che facciano meno storie.

Ma – come è evidente – arriva un momento in cui finisce per forza lo scaricabarile e tutti i protagonisti della filiera si accorgono di averci rimesso, ognuno a modo suo.

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