Sono a Pechino. Yang Rui, anchorman della televisione cinese Cctv, mi rivolge domande molto generiche. A metà intervista affonda il colpo: “Ma, voi italiani, vi rendete conto che la vostra democrazia è alternativa alla modernità? Che oggi conta soltanto la rapidità nelle decisioni e nei risultati?”. Poi aggiunge qualcosa sul fatto che non riusciamo più a costruire una strada, una ferrovia, uno stadio, un gasdotto, un aeroporto. Siamo bloccati da “voti e veti” e non guardiamo al futuro, aggiunge. Si riferisce anche all’Europa.
Gli parlo della complessità della democrazia, ovviamente. Elogio la nostra libertà, che non è di certo incompatibile con la modernità. Poi, racconto dall’Alta velocità, che collega in pochissimo tempo città straordinarie come Roma e Firenze o Venezia. Ne descrivo la bellezza e la civiltà, suggestione che all’estero funziona sempre.
Certo, so bene che sto usando esempi vecchi e un po’ stantii. E, a proposito di “veti”, mi tornano in mente – ma non le dico – due cifre: tremila e otto. Tremila sono i chilometri del Tap, il Trans-Adriatic Pipeline. È il gasdotto che porterà il gas dai giacimenti del mar Caspio all’Europa, attraverso Azerbaijan, Georgia, Turchia, Grecia, Albania, mar adriatico, Puglia. Un opera di approvvigionamento energetico fondamentale per l’Italia, soprattutto dopo che le tensioni con la Russia hanno bloccato l’altro gasdotto, il South Stream. Ho seguito il dossier per mesi. Da ultimo, sono andato a Baku, capitale dell’Azerbaijan, per chiudere l’accordo in base al quale il Tap, anziché prendere la via settentrionale, che non avrebbe toccato l’Italia, arriverà, come volevamo fino all’Adriatico, sfruttando anche i gasdotti della Snam come punto di connessione con l’Europa continentale.
Qui entra in gioco l’altra cifra: otto. Otto sono i chilometri di gasdotto in territorio italiano. Quelli che hanno tenuto il Tap in sospeso per mesi e mesi. Perché è solo in Italia che agitazioni, manifestazioni, veti più o meno argomentati da parte delle autorità locali hanno congelato un progetto così strategico. Otto chilometri su tremila. Sia chiaro, in questo caso le dietrologie sui “poteri forti” non reggono. Non c’erano obiezioni sostanziali che giustificassero quelle resistenze. Le rassicurazioni sul piano ambientale erano e sono valide. E che l’opera rappresenti un interesse prioritario per un Paese come il nostro, che oltretutto ha investito più di altri sulle rinnovabili e sul gas, mi pare fuori discussione.
La vicenda, tuttavia, serve bene a spiegare quanto la domanda di Pechino, ancorché brutale, abbiamo centrato forse la questione più spinosa che investe le democrazie occidentali. Dopo l’intervista, ho ricollegato il senso di quelle parole al discorso pronunciato qualche tempo prima, non dal dittatore di un Paese emergente, ma dal premier democraticamente eletto di uno Stato membro dell’Ue, da un membro a pieno titolo del Consiglio europeo. Mi riferisco al capo del governo ungherese, Viktor Orbàn, che ha detto, in sintesi, di sentirsi attratto dai sistemi politici capaci di decidere e di fare le cose. Turchia, Singapore, Cina, appunto.
Altro che democrazia europea. E altro che democrazia italiana, direbbe – comprensibilmente, temo – l’esasperato piccolo imprenditore veneto, che qualche tempo fa mi ha raccontato dei sette anni che ha dovuto aspettare per l’autorizzazione all’ampliamento del proprio sito produttivo, bocciando senza appello tempi e procedure dei nostri riti democratici.
Tratto da “Andare insieme, andare lontano”