Se analizzata nell’attuale contesto economico–sociale, appare evidente che la corruzione ha mutato la propria fisionomia dai tempi della ormai lontana stagione di “mani pulite” in cui, per la prima volta nella storia del nostro Paese, si registrò una così diffusa percezione del fenomeno illecito da farlo apparire quasi normale. Eppure, proprio in quegli anni maturava la convinzione della gravità criminologica della corruzione e la necessità di preordinare strumenti legislativi utili a combatterla. È l’inizio della costruzione di una struttura di tutela multilivello: quello statale della repressione e della prevenzione, e quello privato dell’elaborazione di presidi di controlli e sanzioni.
Le nuove frontiere contro la corruzione sono state, in seguito, rafforzate dalle indicazioni degli Accordi Internazionali, primo tra tutti il trattato dell’Ue approvato il 12 marzo 1999 e la Convenzione di Strasburgo del 1999 che, tra l’altro, hanno consentito di introdurre in Italia nuove tipologie di reato quali il traffico di influenze illecite e la corruzione tra privati.
In questo contesto culturale–giuridico, il legislatore ha promulgato con il decreto legislativo numero 163 del 2016, il primo codice dei contratti pubblici. Purtroppo il dichiarato intento di una sistemazione unitestuale della materia, effettivamente utile a enucleare i profili contrattuali ricorrenti negli accordi di cui una parte è portatrice di interessi pubblici, è stato sconfessato dalle numerose modifiche che hanno novellato il testo originario e dalla palese inidoneità a garantire efficienza e trasparenza.
Con il nuovo Codice dei contratti pubblici, dobbiamo fare tesoro dell’esperienza passata implementando, in primo luogo, la leva della prevenzione. In questa ottica è condivisibile la decisione del legislatore italiano di un completo riassetto della materia dei contratti pubblici piuttosto che limitarsi al mero recepimento della recente disciplina europea in materia di concessione e appalti.
Nondimeno può essere trascurata la ricerca di corrispondenza tra quest’ultima e le criticità sollevate dal piano predisposto dall’Autorità nazionale anticorruzione al fine di individuare le aree maggiormente a rischio del contesto italiano. Si potranno conseguire eccellenti risultati se verranno raggiunti i principali obiettivi del legislatore europeo: la garanzia della qualità degli appalti pubblici, al fine di limitare il criterio di aggiudicazione improntato al prezzo più basso, favorendo l’offerta economicamente e qualitativamente più vantaggiosa.
La promozione dell’innovazione tecnologica, cioè la valorizzazione degli appalti orientati all’approvvigionamento di prodotti tecnologici innovativi, in quanto rappresentano un’utilità generale, come nel caso dell’informatizzazione e digitalizzazione, oltre che l’efficienza e la trasparenza del sistema di aggiudicazione. La tutela ambientale e sociale, quella che il legislatore europeo ha denominato “costo del ciclo della vita”, uno dei parametri innovativi che integrano i criteri di aggiudicazione valutando tutte le esternalità, negative e positive, che l’offerta può produrre, come i costi di smaltimento e riciclaggio materiali, le emissioni prodotte e le eventuali variazioni dei cambiamenti climatici conseguenti all’opera prestata. In definitiva l’appalto deve costituire uno strumento di crescita sostenibile, e al contempo, una tutela per le imprese sociali, che hanno come scopo l’integrazione o la reintegrazione di soggetti socialmente svantaggiati, contribuendo in tal modo ad attuare la loro partecipazione agli appalti che si pongono in coerenza con gli obiettive dalle stesse perseguiti.
Certo è difficile un bilanciamento tra la tutela socio ambientale e il principio della concorrenza, legato all’efficienza e alla democraticità del sistema dei contratti pubblici, essendo evidente che misure eccessivamente restrittive rischierebbero di pregiudicare l’accesso al mercato di un numero considerevole di lavoratori.