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Israele-Iran: tra due litiganti, il terzo gode

Col passare delle ore, sembra delinearsi con sempre più precisione l’atteggiamento delle maggiori potenze riguardo alle tensioni diplomatiche innescate da Israele, fermamene convinto di un mancato rispetto, da parte di Teheran, dei termini dell’accordo sul programma nucleare iraniano stipulato nel 2015 tra il Paese sciita ed il gruppo 5+1 (Stati Uniti, Russia, Gran Bretagna, Cina, Francia e Germania). Proprio qualche giorno fa, infatti, il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha annunciato di essere in possesso di almeno 55mila file che svelerebbero le reali intenzioni iraniane: riuscire ad ultimare la messa a punto di cinque ordigni nucleari (dalla potenze almeno pari a quella sprigionata ad Hiroshima) coadiuvati da un sistema balistico in grado di colpire qualsiasi punto del Pianeta. Netanyahu ha definito l’operazione di recupero di tale materiale (per lo più fotografie, mappe e documenti riservati) come “uno dei maggiori successi di intelligence che Israele abbia mai conseguito”.

Il segretario di Stato Usa ed ex direttore Cia Mike Pompeo non ha esitato a ritenere le accuse mosse da Gerusalemme veritiere e fondate: “L’Iran ha un programma nucleare clandestino che ha cercato di nascondere al mondo e alla sua gente”. Di tutt’altro avviso i leader europei Macron, Merkel e May, i quali si sono espressi in favore dell’accordo faticosamente raggiunto nel 2015. Ai loro dubbi nei confronti delle accuse mosse da Netanyahu si aggiungono quelli dell’Ue, rappresentata da Federica Mogherini, convinta del rispetto dei patti da parte di Teheran. Anche l’Aiea (Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica) ha dichiarato di non avere alcuna indicazione credibile su una presunta attività di proliferazione del nucleare in Iran da dopo l’anno 2009.

Il Presidente Usa Trump ha già preso posizione, dichiarando l’uscita degli Stati Uniti dall’accordo con Teheran e un nuovo round di sanzioni entro il 12 maggio nonostante gli sforzi profusi dal presidente francese Emmanuel Macron nel tentare di tranquillizzare il Congresso in occasione della sua visita ufficiale a Washington. Non si è fatta attendere la risposta iraniana: il ministro degli Esteri Mohammad Javad Zarif ha dichiarato che l’Iran né integrerà né rinegozierà gli accordi del 2015, facendo presente che, nel caso di uscita degli Usa, anche Teheran si tirerà diametralmente fuori da tutti i patti sottoscritti appena pochi anni fa. A far salire ulteriormente la temperatura, le esternazioni del portavoce del ministro degli Esteri Bahran Ghasemi, tramite le quali Netanyahu è stato descritto come un “bugiardo ed infame”. Un così repentino peggioramento delle relazioni tra Iran, Usa ed Israele non può non essere stato condizionato da agenti esterni: all’interno di questo complesso gioco di alleanze, storiche rivalità ed interessi economici, infatti, non poteva mancare lo zampino dell’Arabia Saudita, ideologicamente e culturalmente antagonista sia di Teheran che di Gerusalemme, nonché anch’essa decisa a giocare un ruolo di primo piano negli equilibri (o negli squilibri) dell’area mediorientale. Durante la visita a Washington avvenuta nel gennaio scorso, il principe saudita Mohammed Bin Salman aveva già anticipato a Trump l’ambizioso progetto messo in cantiere da Riyadh, un programma nucleare saudita che preveda la costruzione di 16 reattori a scopo civile entro il 2030. Una possibile caduta dell’accordo con l’Iran dovuto all’uscita degli Usa (col conseguente sviluppo di un programma atomico militare iraniano) accelererebbe e giustificherebbe il processo di “nuclearizzazione” dell’Arabia Saudita, mentre le eventuali sanzioni americane verso Teheran influirebbero sensibilmente sull’aumento del prezzo delle materie prime, caposaldo dell’economia saudita, la cui tenuta è indubbiamente legata ad una migliore vendita dei barili di petrolio.

I detrattori dell’accordo ritengono che questo non abbia fatto altro che rendere l’Iran più forte dal punto di vista dell’influenza esercitata nella regione (con evidente riferimento all’intervento militare di Teheran in Siria, dove tutt’ora difende i propri interessi nazionali fornendo supporto all’esercito governativo), ma d’altro canto, senza gli accordi del 2015, gli eredi del glorioso Impero Persiano si sarebbero già dotati degli ordigni nucleari necessari per alterare i già fragilissimi equilibri regionali. Oltre al deteriorarsi dei rapporti tra Iran, Usa ed Israele, la crisi diplomatica legata alla questione del nucleare iraniano porta con sé uno strascico molto pericoloso anche per quanto riguarda le relazioni interne all’Alleanza Atlantica: la distanza tra Unione Europea (più moderata ed attendista) e Stati Uniti d’America (dall’approccio sempre più sanguigno, repentino ed imprevedibile almeno quanto quello del loro Presidente) continua ad aumentare sensibilmente in merito alle priorità, ai modi e alle scelte da compiere in politica estera. Inoltre, un possibile venir meno della faticosa stabilizzazione dei rapporti tra Iran ed Occidente contribuirebbe a complicare ulteriormente il rompicapo siriano che vede l’Iran già attivamente impegnato ed allineato con Mosca a difesa di Assad, mentre le forze aeree israeliane hanno già più volte colpito l’esercito regolare siriano. Uno scontro armato in campo neutro risulta essere una possibilità neanche troppo remota. Tra i due litiganti, il terzo gode: Arabia Saudita a parte, infatti, da quest’ennesima crisi diplomatica nessuno sembra guadagnarci abbastanza da poter giustificare una tale escalation di violenza verbale.

Giannicola Saldutti – ricercatore associato all’IsAG (Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie)

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