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Inflazione, tassi e possibile recessione: la cura della Bce ha funzionato?

La notizia importante, che sta rimbalzando tra le varie testate economiche, è che in settembre la rilevazione del tasso di inflazione continentale sia sceso ben al di sotto del valore obbiettivo del 2%, indicato dalla BCE, attestandosi all’1,8%. In due anni questo è, infatti, sceso di quasi nove punti percentuali dal 10,6% toccato nell’ottobre 2022, spinto dalla crescita dei prezzi di energia e beni alimentari causati dalla crisi Ucraina… ma era vera inflazione?

La risposta è no, come più volte ribadito su queste pagine, perché, al di là della narrazione da parte dei vertici della banca centrale e di buona parte dei media, l’inflazione non è un mero aumento generalizzato dei prezzi ma una perdita di valore della valuta dovuta a un eccesso di offerta rispetto alla domanda, cosa che in Euro-zona non è mai avvenuto.

La cura perseguita dalla BCE, infatti, è stata da manuale proprio per questo caso ma non è servita allo scopo prefissato, perché i prezzi sono rientrati con la normalizzazione delle quotazioni di materie prime e logistica sui mercati, ma, piuttosto, ad azzoppare la ripresa post-pandemica che il continente aveva imboccato anche in maniera piuttosto repentina, anche a seguito del programma di stimolo da parte delle istituzioni unitarie.

Con la normalizzazione delle quotazioni, si diceva, è pure iniziata prima la frenata nell’aumento dei prezzi e, in seguito, anche una loro discesa significativa, pur senza tornare ai livelli del 2019-2020, cosa che si era vista già nella prima metà del 2023; ciononostante una certa impostazione manichea da parte dei vertici di Francoforte ha spinto all’impennata dei tassi, fino al massimo storico dalla nascita dell’euro, e a una contrazione delle basi monetarie per contrastare un’inflazione percepita che, invece, derivava da dinamiche di mercato e non dalla politica monetaria.

Questo è stato più volte imputato, da parte di numerose forze politiche europee e dal settore produttivo, al governatore Christine Lagarde e al board della Banca Centrale che, però, non hanno voluto sentire ragioni, volendo vedere anche per compensare l’aumento dei tassi americani, dove la FED ha dovuto realmente fronteggiare una fiammata inflazionistica dovuta alle politiche economiche fin troppo espansive di Washington, e per la difesa del cambio della moneta unica sul dollaro.

Oggi l’inflazione è tornata ben sotto il valore obbiettivo, come si ricordava in incipit e la FED ha iniziato la riduzione del costo del denaro in maniera piuttosto aggressiva con un taglio di mezzo punto percentuale e, quindi, ogni remora a un ritorno dei tassi di riferimento a livelli ben più contenuti di quanto, tutt’oggi, siano mantenuti in Europa è evaporata e non si capisce la cautela che ancora viene esternata dall’Eurotower;  soprattutto se si tenesse conto della situazione economica del continente.

Osservando l’indice PMI, che rappresenta la fiducia del settore industriale, generale si vedrebbe che al momento si pone in un intervallo prodromico alla recessione (inferiore a 50 punti, cioè) fermandosi a quota 45 seppur con una certa varianza nelle declinazioni degli Stati membri. Prendendo le due più importanti potenze industriali del continente, ad esempio, si nota che in Italia questo valore si attesti a 48,3, già in zona recessiva ma ancora vicino al punto di neutralità, mentre in Germania questo sia sceso fino a quota 40,6 indicando un forte pessimismo nelle possibilità di crescita anche per il 2025.

Il sentiment, quindi, è ampiamente negativo sulle possibilità di crescita cosa dovuta a una forte contrazione della domanda, per la minore liquidità disponibile, e a investimenti asfittici che, invece, si sono rivolti ai bond di stato per via dell’innalzamento dei tassi di riferimento che ha reso l’impiego dei capitali in settori considerati più sicuri e, al momento, caratterizzati da buoni rendimenti.

Il problema dei tassi elevati, però, non va a toccare solo gli investimenti personali ma ha un forte riflesso anche in quelli industriali per va dell’elevato costo del credito che rende meno conveniente il finanziamento per il rinnovo dei macchinari e delle linee produttive, ad esempio.

Nonostante gli analisti globali vedano una forte discesa dei tassi in Eurolandia entro i prossimi mesi per puntare a una forbice tra il 2,5% e il 2%, non certo come nel periodo dei tassi negativi che si era visto nel decennio 2012-2022 ma a un livello che possiamo definire “fisiologico” e efficiente, quello che manca è la fiducia nell’autorità monetaria che in questi due anni ha mostrato la sua inadeguatezza sia a livello comunicativo sia a livello strategico e, combattendo un’inflazione presunta, ha spinto la “locomotiva d’Europa” fin sulle soglie della recessione, per il crollo degli ordinativi e l’elevato prezzo del rifinanziamento delle imprese, e tagliato le performance degli altri Stati membri peggiorando il quadro globale.

Ora, a livello italiano, nonostante tutto, si è registrato un buon biennio di crescita che ha portato anche a importanti rinnovi contrattuali per l’aumento dei salari ma nettamente inferiore alle aspettative che si erano create con l’approvazione del programma di stimoli NGEU che si è tradotto nel PNRR. La cosa, però, non deve far abbassare la guardia perché fin troppe criticità si registrano sia a livello di finanza pubblica sia a livello delle imprese, per non parlare della domanda dei cittadini che è ancora frenata dall’incertezza sul futuro.

Quello che servirebbe, ora, a livello monetario sarebbe un’azione di rottura, magari imitando quanto già fatto da Powell in USA, con un taglio più deciso dei tassi, per dimostrare che Francoforte non si limiti a seguire gli eventi e agire di rimessa ma che abbia una strategia seria per mantenere almeno la stabilità dell’economia continentale e ridare fiducia e credibilità nell’istituzione.

La differenza tra l’intera azione di Christine Lagarde e la semplice e iconica frase “whatever it takes” di Mario Draghi nel 2012 è tutta in queste ultime due parole: fiducia e credibilità.

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