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Inflazione, il caso Europa: perché la recessione è possibile

In questi mesi si è sentito parlare spesso di inflazione, fin dallo shock energetico dello scorso anno che l’ha spinta nella seconda metà del 2022 a due cifre. Circostanza che ha spinto la Banca Centrale Europea a operare una stretta monetaria pesantissima portando il tasso d’interesse di riferimento al livello record da quando esiste la moneta unica. A ottobre, però, si è verificato un fatto insolito.

Contrariamente alle previsioni dei tecnici della BCE il tasso di inflazione in Europa è sceso al 2,9%, in Italia, all’1,8%, partendo dal 4,3% registrato a settembre, seguendo la discesa delle componenti energetiche e il ridimensionamento dei prezzi alimentari del paniere di riferimento, raggiungendo un livello che per i tecnici della BCE avrebbe dovuto essere toccato solo nel corso del prossimo anno. Ma, allora, i prezzi stanno scendendo?

La risposta è, ovviamente, no, almeno su base annua. Sebbene la variazione dei prezzi rispetto a settembre, quindi con un calcolo mese su mese, sia di segno negativo, se si osservasse un intervallo di tempo più ampio la cosa sarebbe piuttosto diversa. L’inflazione si calcola con una formula piuttosto semplice: da un paniere predefinito di beni si va a ricavare un indice dei prezzi al consumo (IPC), una volta avuto questo dato, il tasso di inflazione non è nient’alto che l’IPC attuale sottratto l’IPC del periodo precedente diviso per l’IPC del periodo precedente e moltiplicato per 100, in formula (IPCt – IPCt-1)/IPCt-1*100.
Difficile? No, direi di no. Anzi, già guardando questa formula si potrebbe intuire che un calo dell’inflazione tendenziale, per quanto auspicabile per la stabilizzazione dei prezzi, non significhi una riduzione di questi ultimi.

Un tasso non negativo, oggi, significa che la variazione dei prezzi acquisita nel passato sia divenuta strutturale e il livello generale sia decisamente più elevato rispetto al periodo antecedente allo shock dell’estate 2022.

In pratica il tasso indicato all’1,8% in Italia in ottobre significa che l’IPC calcolato il mese scorso è risultato più elevato del 1,8% rispetto a quello di ottobre 2022 ma se a ottobre 2022 era stato indicato da ISTAT all’11,5% significa che i prezzi a ottobre 2023 siano più elevati dell’11,7% rispetto a ottobre 2021 che non è una variazione da poco in soli due anni.

Questa possiamo definirla un’illusione da base mobile, perché il calcolo dell’inflazione tendenziale avviene utilizzando una media mobile dei tassi di interesse calcolati sui vari mesi di riferimento. Quindi, benché il dato indichi un rallentamento della corsa dei prezzi, il risultato di ottobre non è certo rassicurante per chi abbia un reddito fisso o non possa adeguare prontamente i ricavi alla variazione dei prezzi.

Osservando la variazione mese su mese, invece, il dato ha una valenza assai più importante, oggi, perché se calcolato ottobre 2023 su settembre 2023 questo è negativo e… bella forza si dirà, se il dato anno su anno è crollato di oltre due punti percentuali rispetto a quello calcolato il mese precedente è evidente che la variazione sui 30 giorni sia negativa.

Questo è vero ma non è il cosa sia successo la cosa interessante ma il perché. Ed è questo che sta cominciando a far preoccupare Chrstine Lagarde e il resto del board della BCE. La discesa repentina del tasso di inflazione calcolato, infatti, è stato rilevato su base mensile mentre il tendenziale annuo è ancora piuttosto elevato, seppur a un livello inferiore a quello relativo alle aspettative della Banca Centrale ma se si andasse a verificare la variazione mensile, quindi con base di calcolo il mese precedente alla rilevazione, in questo caso settembre, la variazione sarebbe negativa. Cosa logica, si dirà, perché per avere un calo così accentuato la variazione “istantanea” deve per forza essere inferiore a zero ma questo ha un significato molto importante e alquanto allarmante.

Il rialzo repentino e fino a livelli record del tasso di riferimento ha, di fatto, bloccato la richiesta di credito e reso molto più onerosa la gestione dei prestiti già in essere, se a tasso variabile, o il rifinanziamento degli investimenti. Aprendo la strada a quello che potrebbe diventare un vero e proprio “credit crunch”, se si volesse usare il termine tecnico corretto.

In pratica si è bloccata la domanda di credito e, di conseguenza, si stanno riducendo consumi e investimenti; certo questa era l’obiettivo dei vertici di Francoforte perché, riducendo l’offerta di moneta e spingendo verso il basso la domanda, mantenendo un livello superiore all’offerta si sarebbe potuto contrastare al meglio i rincari registrati tra la fine del 2021 e l’estate 2022. Riportando quindi la progressione dell’indice dei prezzi in un intervallo che possa essere considerato di stabilità. Ma, forse, qualcosa non è andato come previsto. La stretta, secondo molti (compreso lo scrivente) giudicata eccessiva ed erratica, senza un vero e proprio piano di azione, ha colpito anche le aspettative degli operatori che hanno ridotto pesantemente la domanda di moneta.

Adesso qualcuno potrebbe obiettare che, se l’inflazione sia dovuta a uno squilibrio tra domanda e offerta di moneta, diminuendo entrambe le due curve si sarebbero mosse insieme verso un livello inferiore, rendendo meno efficace, se non nulla, l’azione di politica monetaria.

Questo è vero, in parte, ed è quello che è avvenuto nei primi mesi di quest’anno quando, nonostante la stretta, il tasso di inflazione calava più lentamente del previsto. Ma, in economia, non esistono dei modelli che agiscono in solitaria, diciamo così, ma si devono considerare diverse variabili. Finché la domanda aggregata ha resistito, le aziende (semplificando al massimo) hanno aumentato i prezzi per coprire le nuove voci di costo e, anche con il rientro dell’ “emergenza prezzi” generata dal rialzo di quelli di materie prime, energia e logistica, la dinamica di rialzo è continuata per coprire i maggiori oneri finanziari derivanti dall’innalzamento dei tassi.

Questa situazione non può, naturalmente, durare poiché le risorse non sono infinite e la progressione reddituale è nettamente più lenta rispetto ai rincari dei prezzi, cosa più evidente nel caso dei lavoratori dipendenti ma, di rimbalzo, anche degli autonomi che non possono innalzare le proprie tariffe al bisogno per non perdere clientela.

La caduta dei redditi reali, dovuta al tasso di inflazione, e la maggiore difficoltà di accesso al credito si tramuta in minori risorse da destinare a consumi e investimenti (anche il risparmio, per la cronaca, è un investimento) che porta a un calo generale di domanda.

Come ricorderà chiunque abbia studiato almeno le basi di economia, a una minore domanda corrisponde un abbassamento dei prezzi perché il mercato è “demand driven”, guidato dalla domanda, e una contrazione dei margini delle aziende se non possano agire direttamente sui costi per minimizzarli. Non sembra uno schema già visto?

Volendo essere pessimisti sembrerebbe una ripetizione del 2011 quando gli errori della BCE, guidata allora da Jean-Claude Trichet, hanno spinto la moneta unica in una spirale critica che, con il default della Grecia e il possibile shock sul debito italiano e delle altre “economie” periferiche avrebbero potuto far cadere addirittura l’impalcatura dell’euro.

La variazione negativa, mese su mese, tra settembre e ottobre indica proprio questo scenario come possibile. E qui sta la vera e propria illusione che si è vissuta in questi mesi. Se da un lato qualcuno potrebbe pensare che l’azione della BCE abbia sconfitto l’inflazione, in realtà ha minato le basi stesse del sistema economico continentale e sta rischiando di spingerlo in una nuova recessione quando ci si stava riprendendo dalla crisi pandemica del biennio 2020-2021. E con fortissimi venti di guerra che spirano da oriente e anche se le rilevazioni su base annua possano sembrare ancora incoraggianti, restringendo il periodo di esame, i campanelli di allarme stanno cominciando a suonare. E, forse, sarebbe il caso di cominciare a ragionare in maniera più organica.

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