L’eccessivo consumo di alcol in adolescenza danneggia gravemente il cervello promuovendo l’assottigliamento della corteccia prefrontale, la porzione del cervello responsabile dell’attenzione, del prendere decisioni, delle emozioni e del controllo degli impulsi. È questo quanto emerge dal convegno annuale della Research Society on Alcoholism di Atalanta (Stati Uniti), dove Tim McQueeny del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Cincinnati (Stati Uniti) ha presentato i risultati dei suoi studi, che hanno previsto scansioni cerebrali di 29 giovani di età compresa tra i 18 e 25 anni con l’abitudine di consumare almeno 4 (se femmine) o 5 (se maschi) bevande alcoliche ogni fine settimana.
L’uso di alcol aumenta tra le ragazze adolescenti, diminuisce tra i ragazzi, ma il livello complessivo di consumo in questa fascia di età resta elevato. Ed elevati restano i rischi. È importante sottolineare che nell’indagine conoscitiva dell’Istat sulle dipendenze patologiche diffuse tra i giovani, aggiornata con i dati 2020, non c’è uno stravolgimento dei trend rispetto al pre-pandemia. Tra le bevande alcoliche maggiormente consumate in questa fascia d’età, si segnalano, tra i maschi, principalmente la birra (14,3%) e gli aperitivi alcolici/amari/superalcolici (12,4%); tra le ragazze, gli aperitivi alcolici/amari/superalcolici (13,5%), seguiti dalla birra (12,2%). Vengono assunte senza un aumento dell’uso di alcol rispetto al passato, anche se deve indurre ad una seria riflessione il fatto che in questa fascia d’età l’abitudine al binge drinking e/o al consumo fuori pasto almeno settimanale è ormai cosa comune.
Il binge drinking, o assunzione di più bevande alcoliche in un intervallo di tempo più o meno breve, è sempre più preoccupante, tanto che diventa necessario non solo monitorare la frequenza dell’alcol ma l’uso che se ne fa. Tale uso spesso è fine a sé stesso oppure diventa una gara a scopo “socializzante”. L’uso socializzante è il segno di una ricerca costante di sballo. Se il giovane è alla ricerca costante di piacere, significa che non sta vivendo bene, non sta sentendo benessere e nemmeno lo vuole perseguire. Ottenere il piacere richiede molto meno fatica del raggiungimento del ben-essere che presuppone, invece, attesa, sforzo, pazienza, lavoro, sudore, preparazione. Alla capacità di vivere bene, di “ben-essere”, molti ragazzi non credono più, disillusi come sono da mancanza di prospettive, insicurezza sul futuro e soprattutto della presenza della terza pandemia, sempre più pressante e fonte di angoscia e incertezze. Ciò li conduce a lasciarsi andare, a lasciarsi vivere, all’accettazione passiva di un non senso della propria esistenza. Subentra un loro atteggiamento di passiva protesta, che non si traduce in azioni ma, al contrario, in atteggiamenti di rinuncia, di abulia, di sfiducia in sé stessi e in ciò che li circonda. Ciò li porta alla mancata accettazione del mondo degli adulti e delle loro regole, di ogni loro abitudine e sistema di vita, una rinuncia che coglie gli educatori impreparati al punto da farli diventare paradossalmente concilianti. Ed è così che i giovani, anzi soprattutto e prima di tutto i ragazzini, iniziano a sperimentare la debolezza delle persone in cui invece dovrebbero cogliere esempi di autorevolezza, determinazione, fermezza di regole precise ed inequivocabili da osservare. Bisogna che i giovani abbiano punti di riferimento fermi e decisi. Non è possibile che ci vedano sempre pronti a capirli nei loro ripetuti, spesso provocatori errori.
I “no” siano “no”. In qualche “no” ci può essere la via perché l’educando si rimbocchi le maniche e pensi che non tutto gli è dovuto. Con quei “no” si può evitare una deriva narcisistica e antisociale. Essere buoni genitori e amati educatori vuol dire far comprendere il senso vero della democrazia.
La forza di un popolo non è fare ciò che si vuole, ma contribuire positivamente al miglioramento di sé stessi e del proprio paese. Allo stesso modo la forza dei giovani non è essere liberi di mandare in aria tutti i sacrifici fatti nel passato per garantire un futuro migliore; è invece essere liberi di perseguire le vie migliori per rendere più vivibile la vita della nostra Terra, per dare validi contributi alla medicina e alla scienza e progredire nella scoperta di modi migliori per comunicare in modo positivo con le genti di tutto il nostro pianeta. Fare questo richiede impegno, coraggio; l’azione del giovane non può tradursi nella ricerca di una bottiglia scacciapensieri cui aggrapparsi per liberarsi facilmente d’ogni responsabilità e problema, persino della gioia di un incontro che non inizi con un “Andiamo a bere? Dài che stasera si torna a casa ubriachi!!”. Il contenuto di una bottiglia si svuota e alla fine lascia solo angoscia, solitudine, amarezza. Incontrarsi non è questo, non è bere per passare poi a false passioni, a puro e semplice piacere, alla rovina di tante vite, soprattutto familiari. Incontrarsi è guardarsi negli occhi, leggere dentro la gioia di sapere che esiste qualcuno con cui costruire ciò che di bello la vita ci chiede di costruire perché si riempia di senso. Per gli adulti educatori diventa doveroso, al di là dell’uso dei computer, recuperare incontri seri con i ragazzi, essere giovani con loro, ma non colludere con loro per sentirsi giovani. Bisogna intervenire, rimproverare.
I ragazzi devono assolutamente sentire la frustrazione del rimprovero. È così che amiamo davvero. Bisogna ritornare ad educare. Educare è un dialogo profondo in cui si sospende tutto. È un incontro che può essere decisivo perché testimonianza per chi abbiamo dinanzi. Dobbiamo crederci per primi noi adulti.
I ragazzi ci osservano, ci imitano, ci emulano. Hanno bisogno di sentirsi visti, amati. Dobbiamo incontrare il loro canale comunicativo che non può ontologicamente e storicamente essere corrispondente al nostro. Dobbiamo essere amorevoli, ma anche credibili, veri. Solo così gli alcolici non avranno la meglio su di noi.
I ragazzi sono raggiungibili se riusciamo a condividere con loro idee, scelte, prospettive, soluzioni. Hanno il desiderio e il bisogno di potersi proporre senza percepire che la risposta ai loro desideri possa essere sempre svalutante. Hanno bisogno di noi, educatori in letargo, a volte, per troppo tempo. Che bello sarebbe se un giorno potessimo vedere giovani che parlano con adulti senza avere la sensazione di essere in un ring in cui si attiva una lotta tra generazioni anziché un incontro tra esse. Chi educa ha il dovere di sognare stando con i piedi per terra. Ma bisogna crederci. Ritrovare l’entusiasmo.
In tal senso straordinarie sono le parole del prof. Carmina (morto nella tragedia di Ravanusa), riprese dal nostro Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in occasione dell’ultimo discorso di fine anno alla Nazione prima della fine del suo settennato di Presidenza: «[…] usate le parole che vi ho insegnato per difendervi e per difendere chi quelle parole non le ha; non siate spettatori ma protagonisti della storia che vivete oggi: infilatevi dentro, sporcatevi le mani, mordetela la vita, non “adattatevi”, impegnatevi, non rinunciate mai a perseguire le vostre mete, anche le più ambiziose, caricatevi sulle spalle chi non ce la fa: voi non siete il futuro, siete il presente.»
Sono parole che invitano ad un’ultima considerazione: l’importanza dello sguardo all’altro. Non conta chi ce la fa prima, conta farcela, possibilmente insieme. È la relazione con le persone che sposta le cose se lo vogliamo. L’incontro e la relazione possono aprire nuovi orizzonti. È in questi casi che la speranza riprende forza. È in queste occasioni che si può ripartire. È in questi casi che una canna può stancare e una bevanda non essere gradita. Perché? Perché ci sono occhi che, incontrandosi, propongono panorami sconosciuti. Insieme costruiremo un presente che non avrà più odore di alcol o di canne ma il profumo nuovo di un ritrovato e responsabile concetto di libertà.