Non avete la metà della forza che aveva il mio prezioso angelo”. Il drammatico post di Tick Everett rivolto su Facebook a quanti sono responsabili della morte della figlia è un pugno nello stomaco. La scomparsa di un’adolescente è sempre devastante, se poi la causa è un suicidio provocato da cyberbullismo non ci sono parole di consolazione che tengano. La terribile storia di Amy “Dolly” Everett, la quattordicenne australiana che si è tolta la vita, deve far riflettere. La famiglia ha reagito nell’unico modo possibile: invitando tutti a combattere un fenomeno odioso di cui purtroppo molti ragazzi non sembrano rendersi sufficientemente conto.
Bisogna criminalizzare i social media? Bisogna demonizzare la rete? No. Il web è uno strumento e come tale non è né buono né cattivo. Dipende dall’uso che se ne fa. Sembra banale e scontato dirlo ma a volte le verità più ovvie sono quelle che sfuggono. Quale genitore consentirebbe al proprio figlio di insultare, dileggiare o aggredire un’altra persona per strada? Ebbene, occorre rendersi conto che la realtà virtuale ormai fa parte della nostra vita e che anche in quella “piazza globale” che è la rete è necessario rispettare le regole e tenere comportamenti corretti. Servono educazione, rispetto e responsabilità. E in questo è indispensabile un ruolo attivo dei genitori. Che non può essere solo di controllo, anche perché nella maggior parte dei casi i figli, “nativi digitali”, sono molto più esperti dei padri. L’unica strada percorribile è quella del dialogo, della condivisione, dell’accompagnamento.
Ma non è sufficiente. Tick Everett nel suo post su Facebook ha detto esplicitamente che “questa settimana è stata un esempio di come i social media dovrebbero essere usati e anche di come non dovrebbero essere usati”. Non bisogna nascondere la testa sotto la sabbia. Purtroppo, il cyberbullismo (come il bullismo a scuola) è un fenomeno allarmante e sempre più diffuso. Dunque è necessario correre ai ripari. La Polizia Postale, che lo tiene costantemente sotto controllo, spiega che l’identikit del “cyberbullo” è quello di ragazzi che hanno “un'età compresa tra i 10 e i 16 anni, un'immagine di bravi studenti, una competenza informatica superiore alla media, incapacità a valutare la gravità delle azioni compiute on-line” e che usano “internet per realizzare quello che magari non riescono a vendicare nella vita reale”, per fare “quello che non hanno il coraggio di fare nel cortile della scuola”.
Da una ricerca del Moige, il Movimento Italiani Genitori, da anni impegnato su questo fronte, condotta nel 2016 con l’Università La Sapienza di Roma su 1.500 ragazzi delle Scuole Secondarie di primo e secondo grado, emerge la grave sottovalutazione degli effetti dei comportamenti in rete: per 8 ragazzi su 10 non è grave insultare, ridicolizzare o rivolgere frasi aggressive sui social; le aggressioni verbali non sono gravi perché non vi è violenza fisica; 7 su 10 dichiarano che gli insulti riguardano l’aspetto fisico, l’abbigliamento, i comportamenti e che la vittima non avrà alcuna conseguenza dagli attacchi così come non è grave pubblicare immagini non autorizzate che ritraggono la vittima.
Cosa fare dunque? Senza dubbio serve la prevenzione attraverso le tante campagne di sensibilizzazione promosse in tutta Italia. Ma soprattutto non si deve tacere: le vittime di cyberbullismo vanno aiutate prima che sia troppo tardi, denunciando gli aguzzini. E ancora una volta, diventa decisivo il ruolo della famiglia.