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Il secondo round tra Fca-Renault

La storia del merger fra Fca e Renailt sembra che stia diventando un tormentone estivo, quasi a livello di una telenovela sudamericana. La proposta di nozze che il gruppo italoamericano aveva avanzato alla casa automobilistica francese, al di là delle criticità comunque superabili illustrate in uno scorso articolo, rappresenta un progetto assai interessante e con potenzialità industriali enormi che avrebbe permesso di creare il terzo gruppo automobilistico al mondo, con la possibilità di diventare il primo se, in seguito, anche Nissan/Mitsubishi fossero della partita ma, allo stato attuale una chiusura pare stia assumendo la forma di una chimera.

Nessuno, a livello aziendale, ha mai dubitato della validità del progetto che avrebbe riunito in un solo gruppo marchi storici, che si rivolgono a ogni segmento del mercato, e avviato delle sinergie industriali importantissime sia nella componentistica sia nello sviluppo di nuovi modelli e nuove tecnologie; dal lato delle ricadute sul mercato del lavoro, poi, le potenzialità per un rafforzamento nelle località storiche degli stabilimenti produttivi, Italia per Fca e Francia per Renault, c’erano tutte, potendo contare su una struttura più forte e capace di investire risorse assai cospicue. Cos’è che si frappone, quindi, alla conclusione dell’operazione? Da quello che sembra si tratta di un socio pesante dell’azienda francese, lo stato incarnato nella figura del presidente Emmanuel Macron.

Nonostante il ministro dell’economia Bruno Le Maire abbia dichiarato che sarebbe stato disposto a ridurre la quota di partecipazione in Reanult, oggi pari al 15%, in previsione della fusione con Fiat-Chrysler, il presidente francese ha dichiarato la sua indisponibilità a rinunciare al ruolo dello stato in cda. È evidente che, pur mantenendo le attuali quote di partecipazione, nell’ipotesi di fusione paritaria avanzata dai vertici del Lingotto, lo stato francese avrebbe avuto un ridimensionamento nel peso della sua partecipazione nel nuovo soggetto che sarebbe stata, di fatto, dimezzata trovandosi a fare i conti con un socio di maggioranza relativa privato, Exor (a sua volta controllata dagli Agnelli tramite la “cassaforte” di famiglia), che ne avrebbe ridotto il potere di controllo. Al di là delle dichiarazioni di Macron al G20 ad Osaka, quindi, il nodo che si frappone al traguardo è meramente politico e, come nel caso Fincantieri con i cantieri di Saint Nazaire, è l’immagine del dirigismo sciovinista dello stato d’oltralpe che si frappone a qualsiasi vero investimento estero nell’Esagono.

Chiunque abbia gioito per la vittoria dell’attuale presidente francese su Marine Le Pen, come della vittoria dell’europeismo e dell’idea liberale sul populismo sovranista, forse un pensiero su cosa siano veramente En Marche e il suo leader dovrebbe farselo. Sicuramente non c’è un’eredità post fascista di mezzo e neppure una certa nostalgia per Petain come mostrava Mitterand tanti anni fa, ma l’idea “sovranista” non è relegata al vecchio Front National, oggi Rassemblement National, ma è una caratteristica tipica di ogni movimento politico francese almeno dall’epoca di De Gaulle, nessuno escluso. Parlare di mercato e di politiche europee in Francia è sempre un argomento difficile perché prima di tutto viene lo stato e poi il resto, non esiste una differenza sostanziale di pensiero, su questo argomento, fra le varie fazioni politiche, sia che si parli del PCF o del PS o dei Républicains o, appunto, di En Marche.

Nonostante grandi pensatori, seminali nell’evoluzione dell’idea liberale, come Toqueville, Constant, Bastiat o, più recentemente, Aron siano francesi l’idea fondante della politica locale discende ancora da una concezione monarchica e mercantilista dove il sovrano assoluto è stato sostituito dallo stato e da qui discende ogni tipo di decisione politica ed economica locale. Proprio i tentennamenti da parte dello stato francese sono stati la causa del ritiro dell’offerta di fusione da parte di Fca a inizio giugno, ciononostante i vertici di Renault non hanno voluto chiudere la porta perché, come già detto in precedenza, i vantaggi industriali sarebbero stati enormi e, per questo, anche la controparte non ha continuato nelle trattative ma ora tutto diventa assai più difficile.

L’ingerenza dello stato in decisioni industriali, frapponendo interessi politici a opportunità di sviluppo, qui in Italia ha fatto grandi danni nel passato e in Francia è da sempre un limite agli investimenti nel paese che, tutt’oggi, vedono il pubblico come il primo vero attore economico risultando azionista di maggioranza in oltre 1'500 aziende e di minoranza in altre 500, non solo colossi come Edf o Gdf, ma anche Air France, Orange, Airbus ma anche Areva, Safran, oltre che alle automobilistiche Psa e Renault, ovviamente. Nonostante il presidente di Renault e vicepresidente di Nissan, Jean Dominique-Senard, continui a indicare l’opportunità della fusione con Fca e che un’eventuale nulla di fatto sarebbe una grandissima occasione persa, sembrerebbe che dall’Eliseo arrivino orientamenti diversi che, in maniera miope, tentano di tutelare la posizione di controllo odierna a fronte di una sostenibilità e uno sviluppo del settore futuro.

È evidente che il nuovo soggetto, credibilmente, non sarebbe più francese ma adotterebbe la struttura di Fca come società olandese con base fiscale a Londra, per garantire sia la governance sia i benefici fiscali che un modello simile permette di ottenere, così come è evidente che il mercato principale non sarebbe più la Francia ma il mondo intero ma, come l’esperienza a seguito della fusione tra Fiat e Chrysler insegna, globalizzare l’azienda permette di ottenere più vantaggi sia per gli azionisti sia per i lavoratori e gli stakeholder in generale ma è ancor più evidente che all’attuale inquilino dell’Eliseo queste cose non interessano.

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