Un colpo all’acceleratore e via. E in un colpo solo “Elisabetta” si è lasciata alle spalle la famiglia, il lavoro, il suo paese… e ha messo la sua vita nelle mani di due persone della Comunità Papa Giovanni XXIII che non aveva mai visto prima. Ormai aveva perso la speranza. I parenti non le avevano dato scelta: non poteva continuare la gravidanza, il suo compagno l’aveva lasciata. “Noi ti aiutiamo – le avevano detto – ma tu devi abortire”. E visto che tentennava, avevano fissato già l’appuntamento, dicendole che la portavano solo a fare una visita medica. Lei aveva capito, era riuscita a chiedere aiuto nonostante avesse il telefono sotto controllo. L’unico modo per incontrarla era sul posto di lavoro. E così due fratelli dell’associazione sono andati là, e lei ha compreso che era la sua unica salvezza: ha lasciato tutto e li ha seguiti, senza nulla con sé. Ma almeno lei e suo figlio erano salvi. Sono mesi speciali questi.
Da quasi un anno viviamo con il rumore dei cannoni che irrompe nelle nostre vite, scene di una guerra ‘alle porte di casa’ ritornano prepotenti attraverso tutti i media. Siamo preoccupati per il futuro, perché non si sa quale piega prenderà il conflitto in Ucraina. Ma quello che più ci colpisce è che ancora una volta anche in questa guerra le vite umane non valgono nulla. Il potere, il territorio, le risorse economiche vengono prima delle persone. Le crudeltà, i tiri al bersaglio sulle case abitate, le violenze arbitrarie, le fosse comuni non si contano. Ma in Italia e più in generale nell’Occidente del mondo, possiamo dire che tutte le vite sono trattate con uguale attenzione, con la dignità ed il rispetto che dobbiamo ai nostri simili? In tanti casi questo non è vero. C’è una “cultura di morte” per cui tante persone indesiderate vengono fatte letteralmente scomparire.
Ieri i poveri erano messi ai margini della società: avevano meno risorse economiche, meno diritti, meno aiuti. Ma esistevano comunque, nessuno lo metteva in discussione. I nuovi poveri di oggi vengono semplicemente scartati: buttati fuori dal consesso umano, innanzitutto negando che sono persone, e poi sopprimendole fisicamente.
Questo è anche quanto dice papa Francesco, che continuamente denuncia la ‘cultura dello scarto’, in cui l’essere umano viene “ridotto a semplice ingranaggio di un meccanismo che lo tratta alla stregua di un bene di consumo da utilizzare, così che – lo notiamo purtroppo spesso – quando la vita non è funzionale a tale meccanismo viene scartata senza troppe remore, come nel caso dei malati, dei malati terminali, degli anziani abbandonati e senza cura, o dei bambini uccisi prima di nascere.”
Questo ci ricorda anche la Conferenza Episcopale Italiana, nel suo messaggio per la sua 45a Giornata per la vita. Una giornata che nasce nel 1978 proprio per contrastare questa cultura che all’epoca stava rapidamente imponendosi, a partire dai bambini prenatali.
In Italia iniziò la Corte costituzionale nel 1975 ad introdurre una pesante discriminazione, affermando che durante la gravidanza in certe condizioni la salute della madre valeva di più della vita del bambino. Ancora peggio è andata negli USA in cui la Corte suprema nel 1973, con la nota sentenza ‘Roe versus Wade’, abrogata proprio pochi mesi fa, aveva stabilito che l’aborto era una faccenda che riguardava solo la vita privata delle donne, e quindi loro erano libere di decidere qualunque cosa. Per questi giudici, il bambino semplicemente non esisteva.
Da qui ha fatto seguito in tutti i paesi una sequenza impressionante di leggi e di sentenze che poco alla volta hanno tolto tantissime tutele legali che fino ad allora esistevano come forma di rispetto e di protezione della vita dei più fragili, fino a farli scomparire dall’orizzonte. Non sono all’inizio, ma nelle altre fasi della vita, soprattutto nei momenti di maggior debolezza. Le leggi fanno costume, e quello che una legge consente spesso diventa anche socialmente accettato. Ma le dimensioni della cultura di morte sono molteplici.
Come tutte le culture, anche questa ha un proprio linguaggio specifico. Un linguaggio apparentemente morbido e delicato ma in realtà profondamente violento. Perché si illude che sia sufficiente usare parole meno dure, per rendere più accettabili certi fenomeni, ma la realtà dietro è la stessa, non cambia.
Puoi parlare di “prodotto del concepimento” anziché di bambino non nato, ma il piccolo nel grembo non cambia, è sempre lo stesso. Puoi dire che garantisci l’’assistenza alla morte’ di un disabile psichico, ma lo stai comunque privando della vita, solo hai cambiato il nome. Puoi dire che non combatti una guerra ma partecipi ad un’azione di polizia internazionale’, ma gli eserciti, i carri armati e gli aerei d’assalto non scompaiono magicamente. Però nello stesso tempo quelle parole traggono in inganno, e così tante persone fanno delle scelte senza rendersi conto di quello che scelgono.
“Stavo per andare ad abortire mia figlia Sara senza accorgermene!” mi ha raccontato qualche anno fa Elena: il medico al quinto mese di gravidanza aveva diagnosticato alla sua piccola una grave disabilità, e poi le aveva detto: “Signora, se vuole ci organizziamo e domani facciamo l’intervento!” Lui intendeva che avrebbe abortito la piccola, lei pensava che volesse cercare di curarla.
L’individualismo è una delle basi su cui si regge la cultura di morte. “Me ne frego!” è la parola chiave: io penso per me, gli altri si arrangino. I frutti dell’individualismo sono l’indifferenza ed il disimpegno. Se una persona è in difficoltà, deve cavarsela da sola. “Perché debbo darmi da fare, metterci la faccia io?” Lazzaro muore e chi è chiuso nel palazzo non se ne accorge. Tanti oppressi vengono uccisi nel silenzio ed i benpensanti se ne lavano le mani, anzi dicono ai pochi che protestano di smetterla perché disturbano.
Quello che ci ricordano i nostri pastori è che come cristiani siamo chiamati a “dare non la morte ma la vita, generare e servire sempre la vita”. Perché siamo discepoli di chi è venuto perché abbiamo la vita e l’abbiamo in abbondanza (Giovanni 10,10), e quindi siamo chiamati a scegliere la vita, sempre, a portare vita, sempre. Anche quando sembra una proposta folle. Anche quando la morte sembra prevalere ovunque. Perché accogliere la vita dà gioia.
Lo sanno bene le persone dell’ambito Maternità e Vita della Comunità Papa Giovanni XXIII, che quotidianamente passano ore in ascolto ed in dialogo (Numero Verde 800.035.036) con mamme incinte in una situazione imprevista e difficile, in cui il lavoro e la casa non ci sono, la relazione col compagno non va bene, soprattutto il partner ed i genitori sono ostili. 971 – dato ancora provvisorio – sono stati i contatti nell’anno 2022. E il cerchio si allarga: proprio nei giorni scorsi ci ha chiesto aiuto anche una donna da uno stato del Medio Oriente. Quante volte la proposta d’aiuto non viene accolta! Ma tante altre volte le donne ‘corrono il rischio’… e subito ecco che arrivano gioia, pace, gratitudine.
Siamo entrati in contatto anche con donne che hanno abortito in passato. Alcune sono un dono prezioso perché sono disponibili a raccontare alle neomamme le ferite profonde che questo evento ha lasciato in loro, ed il vuoto dell’assenza del loro figlio.
La cultura della vita, al contrario della cultura di morte, mette l’essere umano al primo posto. Ogni uomo è unico ed irripetibile, ha una missione unica da compiere, quindi va trattato con dignità, e rispetto. E’ radicalmente ugualitaria: proprio per fare uguaglianza, occorre dare più attenzioni, risorse ed opportunità a chi fa più fatica.
Una cultura che non richiede necessariamente la fede. Il rispetto della vita è una verità interreligiosa ed interculturale. Chiunque può osservare che “L’uomo non ha in sé la capacità di darsi la vita; la vita è un dono che ognuno di noi riceve da qualcun altro. E dunque a maggior ragione non è mai giusto privare della vita un nostro simile che non si è reso responsabile di alcuna colpa.“(Dichiarazione comune tra esponenti cattolici, ortodossi ed evangelici: “Costruiamo insieme una città accogliente per le gestanti e i loro figli. Gli aborti diventino solo un brutto ricordo del passato” – Modena 25 febbraio 2020).
Qualcuno dice: “Sono cristiano, dunque sono contro l’aborto!”. Personalmente non condivido questa affermazione. Io sono contro l’aborto, perché sono un essere umano e quindi non ritengo giusto che si tolga deliberatamente la vita ad un nostro simile. Come del resto sostenevano intellettuali non credenti come Pier Paolo Pasolini, Poi in quanto cristiano, chiamato a costruire il regno di Dio che è regno di giustizia e di pace (Romani 14,17), lotto per superare le ingiustizie e le violenze presenti nella società.
La prima risposta della cultura della vita all’indifferenza è il ‘prendersi cura’. “I care”, “Mi sta a cuore”, diceva don Lorenzo Milani. Meglio ancora: “We care”, tutta la comunità si fa carico della difficoltà. Innanzitutto con un’attenzione che mostra i segni e racconta le storie dei più fragili per mostrare che sono persone reali, che esistono, che c’è chi si ricorda e si commuove per loro. Che siamo “fratelli tutti” (papa Francesco).
Il passaggio successivo è l’accoglienza. Perché la difficoltà del mio fratello richiede la mia risposta. Diversa a seconda del bisogno. Ma alla base ha un cuore che vede nell’altro un prossimo, non qualcuno da cui difendersi.
Non c’è differenza nello spirito di fondo tra accogliere un bambino non nato o un immigrato; o una ragazza sulla strada, o un disabile grave: vedi la persona, il suo bisogno, scegli di non girarti dall’altra parte, cerchi la risposta adeguata per lui. Se hai il cuore aperto, lo hai almeno idealmente verso tutti. Perché tanti fanno differenza?
Nell’incontro con tante mamme, loro sentono apertura ed attenzione: “Sono ormai anni che vivo accanto a mamme che si trovano in difficoltà, ho capito che serve solo tanto amore, è proprio l’amore che riscalda il cuore e da tanto coraggio,” testimonia Lucia. “E’ proprio vero che delle parole buone ed un po’ di conforto possono decisamente cambiare le sorti di una persona” ci ha scritto ‘Paola’.
E così tutti i giorni siamo testimoni di miracoli, tocchiamo con mano che il passaggio dalla morte alla vita, dalla solitudine alla speranza, dalla solitudine all’incontro avviene. Come per Elisabetta, che oggi stringe tra le sue braccia il piccolo nato da poche settimane. Una luce. La cultura di morte non è invincibile. La voce della vita è presente e viene fuori in mille modi. Siamo chiamati a sperare, non c’è spazio per lo scoraggiamento.