Se c’è un settore in cui l’interventismo delle varie maggioranze di governo si sia visto è sicuramente quello previdenziale. Detta così sembrerebbe quasi una cosa buona poiché la pensione è quell’istituto che dovrebbe garantire una vecchiaia serena a ogni lavoratore ma, in effetti, così non è e difficilmente lo sarà senza degli interventi anche pesanti sulla struttura oggi esistente. Non si stratta, ovviamente, di una disquisizione sulla bontà della “vecchia” riforma Fornero e l’idea prima di “quota 100” e, oggi, di “quota 103” perché il problema non sta nell’età alla quale una persona possa accedere alla prestazione previdenziale ma è insito nella struttura stessa dell’impianto esistente in Italia.
Facciamo un passo indietro, di oltre 100 anni, per capire come si sia arrivati a questa situazione. Alla fine del 1800, esattamente nel 1898, nasceva la Cassa Nazionale di Previdenza per l’Invalidità e la Vecchiaia che avrebbe erogato dopo i 60 anni di età e con almeno 25 anni di contributi un assegno su base contributiva unito a una maggiorazione finanziata per via erariale da parte dello stato.
L’adesione era su base volontaria fino al 1919 quando con Decreto Legge divenne obbligatoria anche se fu il governo Mussolini, nel 1924, a operare la conversione del decreto in Legge; nel 1933 la Cassa divenne l’Istituto Nazionale Fascista della Previdenza Sociale (INFPS) dotato di personalità giuridica e autonomia gestionale a cui, progressivamente furono attribuiti altri compiti di sostegno del reddito come, ad esempio, l’erogazione dell’indennità di disoccupazione o gli assegni famigliari. Quindi, no, non fu il Duce a “creare le pensioni” ma sì fu il suo regime a fondare l’INPS come istituto, anche se il nome attuale lo prese solo nel 1943 con il governo Bonomi, dopo la caduta del Fascismo. Ecco, il “peccato originale” avvenne allora. Fino al 1943 il sistema pensionistico era strutturato a capitalizzazione, quindi i contributi versati dai lavoratori andavano a creare uno “zainetto pensionistico” che, raggiunta l’età per la quiescenza, avrebbe permesso di calcolare la rendita pensionistica e di renderla sostenibile.
La “riforma” Bonomi, che era emergenziale, nacque in una situazione particolare, con il Paese devastato dalla guerra e con l’economia schiantata: un sistema a capitalizzazione non avrebbe permesso di pagare alcuna pensione generando delle tensioni sociali che non ci si poteva permettere a guerra ancora in corso e con l’Italia spaccata in due e da qui l’idea di sostituire il sistema, almeno parzialmente, con uno a ripartizione, cioè con gli assegni pagati tramite i contributi dei lavoratori attivi.
La soluzione che doveva essere, credibilmente, temporanea per superare il momento di crisi però ebbe una certa fortuna politica e, fedeli al detto “nulla è più definitivo del provvisorio”, ecco che il governo Rumor nel 1969 decise di eliminare ogni residuo di capitalizzazione e trasformare un sistema stabile e proattivo come quello esistente fino al 1943 in un sistema di sicura attrattiva elettorale come quello a ripartizione e retributivo, cioè con gli assegni calcolati sugli ultimi anni di remunerazione e pagati tramite l’incasso dei contributi, senza alcun investimenti, senza alcun a resa dei capitali. In partica si trasformò l’INPS in un grande schema Ponzi legale. Quelli, però, erano gli anni della grande crescita economica, del baby boom, quindi ogni criticità a questa impostazione non veniva percepita ma solo vent’anni dopo la questione cambiò drasticamente.
Non fu una questione di “pensioni d’oro” o di “baby pensioni”, che pure contribuirono al problema, ma fu il netto cambiamento del mondo tra minore natalità e aspettativa di vita più lunga, nonché a un mutamento anche del mercato del lavoro in cui i giovani entravano sempre più tardi a dare il colpo di grazia all’illusione in cui l’Italia aveva vissuto fino ad allora. Nel 1995 arrivò la riforma Dini che, tutt’oggi, resta la più radicale mai fatta, cambiando il metodo di calcolo delle pensioni da retributivo a contributivo (quindi sulla base dei contributi realmente versati) e aprendo la strada a tutti gli interventi seguenti che, però, furono di mero maquillage poiché, per questioni politiche, il sistema di finanziamento delle prestazioni dell’INPS resta a ripartizione quindi completamente dipendente dai versamenti tempo per tempo effettuati dai lavoratori attivi, oltre che da un contributo erariale a copertura degli squilibri finanziari.
La “famigerata” riforma Fornero non fu nulla di strutturale ma una mera operazione di cassa per garantire la tenuta dei conti, non va, quindi, né criminalizzata né applaudita perché, alla fine, non ha apportato alcun intervento strutturale ma solo allungato l’agonia di un istituto che non ha le basi per una sostenibilità di lungo periodo, soprattutto dopo l’accorpamento delle funzioni dell’INPDAI e dell’INPDAP che erano sull’orlo del dissesto economico.
La cosa assurda è che la struttura originaria dell’INPS avrebbe permesso la creazione di un formidabile investitore istituzionale nel Paese, garantendo un finanziamento continuo all’economia e permettendo, in prospettiva, di creare un fondo sovrano come il Government Pension Fund Global, creato nel 1990 e gestito da Norges Bank che è oggi il più ricco al mondo, con decenni di anticipo e garantendo delle rese “cinesi” negli anni di boom economico ma si preferì mantenere la struttura emergenziale pensata nel 1943, credibilmente per questioni elettoralistiche, e arrivare a oggi quando con la popolazione attiva praticamente pari a quella in quiescenza la sostenibilità del sistema diventa un enorme punto interrogativo.
Domani ci saranno ancora le pensioni? Sì ma saranno molto diverse da oggi perché gli assegni pagati dall’INPS non saranno sostenibili senza aumentare a dismisura la contribuzione e, senza un’inversione demografica, saranno destinati a scendere d’importo. Diventa importantissimo, quindi, scegliere il secondo pilastro pensionistico, quei fondi pensione convenzionali che sono nati nella seconda metà degli anni 90 e che rappresentano la possibilità di un’integrazione importante alla prestazione pensionistica una volta raggiunta l’età del ritiro, purtroppo non tutti ne hanno accesso, spesso spinti dagli stessi datori di lavoro, nelle imprese più piccole dove non esiste l’obbligo di contribuzione, che si finanziano con il TFR dei dipendenti ma il futuro non permetterà più che, per quieto vivere, si tralasci una scelta importante come l’integrazione alla pensione INPS e, eventualmente, alla creazione anche di un terzo pilastro a contribuzione volontaria se i redditi lo permettessero.
Questo perché non credo in una riforma radicale delle pensioni in ottica di sostenibilità futura, politicamente sarebbe una scelta difficilmente sostenibile, come mostrato dalle recenti proteste in Francia sulla proposta di riforma Macron della questione e se i redditi in Italia tornassero a crescere iniziare ad investire sul proprio futuro sarebbe sicuramente una cosa da non tralasciare.