Chi si interessa di questioni di giustizia già sta cominciando a sentire un ritornello che suona con la espressione “chi sceglie non giudica, chi giudica non sceglie”. Stia in guardia chi lo sentirà per la prima volta: si parla di modifiche costituzionali! Modifiche che riguardano l’ordinamento giudiziario, quell’insieme di leggi che regolano la vita professionale e di carriera del magistrato, quel complesso di norme che trova il suo fondamento proprio nelle Costituzioni del Paesi moderni che tende a tutelare la autonomia del magistrato e, parallelamente, al controllo della sua attività lavorativa.
Materia delicata e complessa, perché l’organo di controllo deve esser imparziale e non condizionabile, ma allo stesso tempo non può esser svincolato da valutazioni sulla propria attività, che devono esser eseguite sulla correttezza del suo operato e, pesino, sui suoi comportamenti. Ciò comporta che le regole che devono dirigere la attività, ancor più, le condotte di chi valuta i comportamenti altrui devono esser chiare, ma, più ancora, che l’organo che tali condotte giudicano deve essere ed apparire del tutto estraneo ad interessi di parte; se così non fosse si potrebbe dubitare della credibilità stessa della funzione giudiziaria.
Il delicato e complesso bilanciamento voluto dalla Costituzione – scritta da chi del condizionamento della Magistratura da parte di un regima dittatoriale era stato personalmente vittima e testimone – portò alla creazione per i magistrati ordinari, in caso di violazioni più gravi, di una sezione disciplinare posta in seno al Consiglio Superiore della Magistratura. Sezione composta da alcuni dei componenti di tale organo attraverso una elezione da parte di tutti consiglieri.
La Sezione, come è evidente, con le proprie valutazioni e le proprie interpretazioni delle norme di disciplinari, contribuisce in modo primario al raggiungimento di un modello di magistrato voluto dalla Costituzione, un professionista preparato ed in grado di affrontare la tutela di antichi e nuovi diritti, senza condizionamenti, ma anche cosciente della delicatezza di un ruolo di cui deve render conto alla collettività attraverso i suoi organi costituzionali. Ora, però, sempre più insistentemente, si parla di modificare la sezione disciplinare, di riformarla, di andare ad intaccare le regole poste dalla nostra Costituzione nel 1948.
E poiché, si ritiene, che pur a fronte di una normativa disciplinare riformata nel 2006 dalla legge in modo forse carente e frettoloso, non possono esser mosse critiche di parzialità sul funzionamento della Sezione e sui risultati da questa conseguiti, avendo i giudici disciplinari operato con equilibrio e moderazione, si è affermato che la provenienza dei giudicanti dalle file del Csm fosse non conforme a regole proprie della nostra cultura giuridica.
Da qui la frase dalla quale siamo partiti che, tradotta in termini più espliciti, significa che occorre separare la funzione amministrative – quella che i componenti del Csm svolgono quando prendono decisioni sulla organizzazione degli Uffici e sulla carriera del Magistrato attraverso, ad esempio, trasferimenti e nomine a posto direttivi – da quella repressiva, punitiva, propria di ogni sistema disciplinare. Ciò perché, a dire di chi sostiene tale tesi, vi sarebbe un reciproco inquinamento tra le due funzioni, pregiudicando la serenità se non dell’intero organo di governo autonomo, il Csm, appunto, quanto meno dei componenti che siedono anche come giudici disciplinari.
Tale tesi è priva di reale consistenza: non vi sono state mai doglianze sui comportamenti di chi tale “doppio ruolo” svolge di linearità e trasparenza. Anzi deve esser detto con estrema chiarezza, tale possibilità di occupare contemporaneamente sia il ruolo di giudice che quello di componente di un organismo voluto a tutela dei Magistrati dalla Costituzione, fu visto come una opportunità favorevole da cogliere da chi la tale Carta fondamentale dello Stato pensò e scrisse. Soltanto il giudice realmente calato nell’ambiente professionale ed umano di colui che viene giudicato è in grado, questa la ragione dell’attuale assetto, di conoscere le ragioni dei comportamenti, la natura degli errori, le cause delle condotte.
Si pensi, a facile titolo di esempio, alla situazione – purtroppo frequente – di Uffici giudiziari sotto organico di magistrati e personale amministrativo, in cui, magari, vi è stato un aumento del carico di lavoro imprevisto – magari il fallimento di una società con molti dipendenti che si rivolgeranno al giudice a ciò delegato – ed al ritardo di adempimenti da parte di quest’ultimo. Chi, meglio dei componenti di quell’organo di governo autonomo che tale situazione deve conoscere e fronteggiare, possono valutare, nel nostro esempio che può esser posto anche in termini speculari con una diminuzione di carichi di lavoro ed un giudice parimenti ritardatario, può disciplinarmente valutare un magistrato incolpato di ritardi?
Chi scrisse e soprattutto pensò, nella sua autorevolezza la situazione che oggi si vuol cambiare modificando la stessa Costituzione, non essendo possibile una modifica con legge ordinaria, volle calare il giudice disciplinare “nella carne” e nella realtà degli Uffici giudiziari, la cui situazione non può esser compresa appieno da colui che solo occasionalmente la può esaminare durante una procedimento sanzionatorio, ma che deve esser appresa per la consuetudine ininterrotta a studiare i meccanismi e le situazioni organizzative degli Uffici giudiziari del Paese.
Come si vede, senza voler aver certezza di scelte giuste ed indiscutibili, la questione è complessa, le regole costituzionali sono frutto di bilanciamento di interessi e, ove si occupano dell’organizzazione dello Stato, sempre opinabili: per questo banalizzare una scelta complessa che abbisogna di profonda riflessione attraverso uno slogan che dà per scontato che vi sia un problema di cui nessuno si è accorto negli ultimi settanta anni deve, e qui mi riporto a quanto detto all’inizio, metter in guardia chi lo ascolta, se ha a cuore la tenuta del nostro sistema.
Il timore vero, che non può non esser espresso, che nasce dalla circostanza che ogni volta che si parla di riforma della giustizia nel mirino vi è sempre e solo il Csm, organo posto a tutela della autonomia del singolo magistrato e, per la conseguenza, della stessa Magistratura, più ancora, della funzione di controllo imparziale che questa svolge, è che si voglia cambiare il sistema disciplinare per modificare un organo che, con tutte le critiche che possono essergli rivolte, da taluni per un supposto lassismo, da altri per un ipotizzata durezza, è stato garante in questi anni, del magistrato non condizionabile dalla politica o da altri centri di potere che all’estero ci invidiano. Per questo tanti Paesi Europei e fuori del nostro continente hanno voluto prender ad esempio la nostra Costituzione del 1948 per costituire organi imparziali che tutelassero la libertà del giudice. Ed, allora, se proprio uno slogan vogliamo trovare che sia “meno slogan, più pensiero articolato”.