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Il pellegrinaggio come metafora della vita

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“Pellegrini di speranza” è il motto del Giubileo 2025, appena avviato, perché  «Spes non confundit», «la speranza non delude» (Rm 5,5), come da incipit della Bolla d’indizione di papa Francesco, che rinvia letteralmente alla “Lettera ai Romani” di San Paolo.

Una delle più antiche testimonianze letterarie del pellegrinaggio cristiano è contenuta in un sonetto del capitolo XL della “Vita Nova”, la prima opera di attribuzione certa di Dante Alighieri, scritta tra il 293 e il 1294 che ha attirato l’attenzione di Francesco De Sanctis, l’autore della ancor oggi insuperata storia della letteratura italiana.

Deh peregrini che pensosi andate,
forse di cosa che non v’è presente,
venite voi da sì lontana gente,
com’a la vista voi ne dimostrate,

che non piangete quando voi passate
per lo suo mezzo la città dolente,
come quelle persone che neente
par che ’ntendesser la sua gravitate?

Se voi restaste per volerlo audire,
certo lo cor de’ sospiri mi dice
che lagrimando n’uscireste pui.

Ell’ha perduta la sua Beatrice;
e le parole ch’om di lei po’ dire
hanno vertù di far piangere altrui.

Siamo nel decennio che precede il primo grande giubileo della Chiesa cattolica del 1300, bandito da Bonifacio VIII, proprio al passaggio da un secolo all’altro, per dare una risposta al fervore popolare che richiedeva l’indulgenza plenaria.

Per il vero il pontefice che indisse il primo giubileo della storia della Chiesa da Dante, fu collocato all’inferno, già da vivo, come si legge nel canto XIX. Precisamente all’ottavo cerchio dell’Inferno, nella terza bolgia dove sono dannati i simoniaci, che avevano in vita fatto commercio delle cose sacre, attenti solo ai beni terreni. Bonifacio VIII, della potente famiglia dei Caetani, Papa dal 1294 al 1303, era detestato da Dante, perché era il grande protettore dei suoi crudeli avversari politici, i Guelfi neri fiorentini, che lo avevano costretto al lungo e penoso esilio.

Tornando al sonetto, non interessa soffermarsi sulle ambasce amorose del Sommo Poeta e sul suo accresciuto dispiacere per la mancata incomprensione-condivisione da parte dei peregrini. Sono invece di grande interesse e, persino, di straordinaria attualità le considerazioni e le delucidazioni di Dante sul termine peregrini.
“E dissi peregrini secondo la larga significazione del vocabulo ché peregrini si possono intendere in due modi, in uno largo e in uno stretto: in largo, in quanto è peregrino chiunque è fuori de la sua patria; in modo stretto non s’intende peregrino se non chi va verso la casa di sa’ Iacopo o riede. E però è da sapere che in tre modi si chiamano propriamente le genti che vanno al servigio de l’Altissimo: chiamansi palmieri in quanto vanno oltremare, là onde molte volte recano la palma; chiamansi peregrini in quanto vanno a la casa di Galizia, però che la sepultura di sa’ Iacopo fue più lontana de la sua patria che d’alcuno altro apostolo; chiamansi romei in quanto vanno a Roma, là ove questi cu’ io chiamo peregrini andavano”.

Tra la fine del primo millennio e l’inizio del secondo, la pratica del pellegrinaggio assunse un’importanza crescente. I luoghi santi della Cristianità erano Gerusalemme, Santiago de Compostela e Roma. La Via Francigena rappresentò lo snodo centrale delle grandi vie della fede. I pellegrini provenienti dal nord, infatti, la percorrevano per dirigersi a Roma ed eventualmente proseguire, lungo la Via Appia, verso i porti pugliesi, dove s’imbarcavano per la Terrasanta. I pellegrini italiani diretti a Santiago, viceversa, la percorrevano verso nord, per arrivare a Luni, dove s’imbarcavano verso i porti francesi, o per proseguire verso il Moncenisio e quindi immettersi sulla Via Tolosana, che conduceva in Spagna.

Il pellegrinaggio divenne presto un fenomeno di massa, e ciò esaltò il ruolo della Via Francigena che divenne un canale di comunicazione determinante per la realizzazione dell’unità culturale che caratterizzò l’Europa nel Medioevo. Dopo il Giubileo del 1300, il pellegrinaggio verso Roma, con le tombe di Pietro e Paolo, diventa il più importante.

È soprattutto grazie ai diari di viaggio e, in particolare, grazie agli appunti di un illustre pellegrino, Sigerico, arcivescovo sassone di Canterbury del X secolo, che possiamo ricostruire l’antico percorso della Via Francigena. Nel 990, dopo essere stato ordinato Arcivescovo di Canterbury da Papa Giovanni XV, Sigerico tornò a casa annotando su due pagine manoscritte le mansioni in cui si fermò a pernottare. Il suo diario è tuttora considerato la fonte itineraria più autorevole, tanto che spesso si parla di “Via Francigena secondo l’itinerario di Sigerico” per definire la versione più filologica del percorso.

I pellegrini avevano insegne, protezione giuridica, centri di accoglienza, alloggio. Talvolta l’obbligo di effettuare un pellegrinaggio era una sanzione inflitta da un tribunale ecclesiastico per l’espiazione di una colpa grave.

In un recente bellissimo libro di Franco Cardini e Luigi Russo, “Homo viator. Il pellegrinaggio medievale” (La Vela, 2019), facendo riferimento alla civiltà dell’Islam oltre che a quella cristiana, si sostiene che pellegrini: lo si è sempre e comunque. La vita è un pellegrinaggio e i viaggi e i pellegrinaggi che facciamo nell’arco della nostra vita altro non sono se non metafore della vita stessa. Mettersi in viaggio significa mettersi in gioco, prefigurando o, quantomeno, sognando una vita più degna di essere vissuta.

In questo senso “chiunque è fuori de la sua patria”, come giustamente e profeticamente Padre Dante aveva intuito, non può non diventare un interlocutore privilegiato del Giubileo della Speranza.

Carlo Felice Casula: