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Il grande gioco delle intercettazioni

Una volta erano i dossier. Cartelline rosse piene di appunti e ritagli di giornale usate dai servizi più o meni segreti per ricattare questo o quello. E giravano molto, essendo uno strumento facile da spostare. Poi c’è stato il breve periodo delle foto, usate come clave, ma facili da disinnescare: bastava comprarle.

Oggi, anzi da qualche giorno a dire il vero, lo strumento per costruire o distruggere una carriera, per far cadere un governo o rafforzarlo sono le intercettazioni telefoniche. Essendo un Paese di chiacchieroni patologici, di drogati di cellulari e smartphone, ascoltare e trascrivere ciò che Tizio dice a Caio è diventato lo sport nazionale, con la stampa che amplifica anche quello che dovrebbe essere silenziato.

L’inchiesta sul caso Consip, i rapporti fra Renzi e la sua famiglia, le implicazioni del cosiddetto Giglio Magico, e le relative telefonate sono il paradigma dell’interno ragionamento, che sta alimentando il dibattito politico di casa nostra. Ciò che ne viene fuori, almeno sino ad oggi, è un fiume in piena, alimentato da mille ruscelli dove la schiuma prodotta dalle cascate e dalle ripide impedisce di vedere ciò che si muove sotto il pelo dell’acqua.

Le intercettazioni, all’interno di questo contesto, sono un po’ come i salmoni che risalgono la corrente, saltando fuori dall’acqua per risalire il corso del fiume sino alla fonte. La quale, però, non arriva mai. Come la verità. Eppure le intercettazioni telefoniche costano al ministero della Giustizia, in media, 250 milioni di euro all’anno. Gli ultimi dati disponibili sono relativi al 2016, con una spesa di 70 milioni nel primo quadrimestre e una stima di 230 milioni per l’intero anno. Nel 2015 la spesa è stata di 245 milioni, in leggero calo rispetto ai 250 milioni del 2014 e del 2012 ma superiore ai 235 milioni spesi del 2013.

Allargando la visuale agli anni precedenti, il trend delle uscite per questa voce di spesa segnala un segno meno, passando dai 300/280 milioni del 2009 e 2010 ai circa 260 milioni del 2011, fino a scendere, appunto, intorno a quota 250 milioni. Tanto che nell’ultima “Relazione sullo stato delle spese di giustizia”, relativa al secondo semestre 2015 e al primo semestre 2016, si evidenzia “una forte flessione” della spesa.

Dunque la situazione è migliorata? La politica ha deciso di fare un uso più mirato e selettivo di questo formidabile strumento d’indagine e accertamento? Oppure siamo solo di fronte ad un dato contabile? L’impressione che la terza ipotesi sia quella dominante è confermata dal dibattito stesso sulle intercettazioni, visto che la dotazione di bilancio è stata ridotta a seguito di una serie di disposizioni normative. Ma meno soldi non significa un uso meno politico dello strumento. Anzi.

“Temo che sia inutile, e forse anche sbagliato, continuare ad affrontare il nodo irrisolto delle intercettazioni e della loro pubblicazione illecita solo in termini di codice e norme eventualmente da rendere più rigide”, sostiene il presidente del Consiglio nazionale forense Andrea Mascherin, mettendo sul tavolo della discussione un contributo tecnico sufficientemente lucido e essenziale, “questa via si è già dimostrata inutile ai fini della risoluzione del problema. La questione delle intercettazioni è legata, come molte altre, alla progressiva mercificazione del nostro intero sistema sociale e culturale, nel quale tutto diventa merce da adattare alle regole di un mercato che ha per unico obiettivo la vendita del prodotto”. Anche le chiacchierate sono un articolo da piazzare.

Dunque la conversazione fra l’ex premier, Matteo Renzi, e il padre Tiziano, va rubricata sotto quella voce: prodotto che tira. I diretti interessati, ovviamente, parlano di gogna mediatica, associando a quel concetto altri ragionamenti sull’uso distorto del mezzo. In effetti quelle intercettazioni non sono mai state depositate agli atti e quindi non sono a disposizione delle parti, compresi gli avvocati degli indagati. Non solo. Il contenuto di quella conversazione era stata ritenuta dai magistrati della procura di Roma una notizia senza rilevanza penale. Per la pubblicazione del contenuto di quella telefonata piazzale Clodio ha aperto un’indagine per violazione del segreto d’ufficio e pubblicazione arbitraria di atti e il ministro della Giustizia Orlando ha disposto, tramite i suoi ispettori, gli accertamenti preliminari per capire chi sia la “gola profonda” dello scoop del Fatto. Tutto secondo copione.

Ogni volta che le indagini della magistratura toccano la politica (vuoi per corruzione, per giri di prostituzione, per collegamenti con le organizzazioni mafiose in cambio di voti) e i giornali pubblicano atti ancora coperti dal segreto istruttorio, ossia non depositati alle parti, si scatena il pandemonio. Ma tutto finisce lì, senza mai arrivare davvero al centro della questione. Da qui il grande dubbio: non sarà che la politica si autoalimenta con le intercettazioni? Ovvero, le usa per coprire o per alimentare ciò che serve. Nel Paese dei balocchi in fondo questo è davvero un grande gioco.

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