Quella mattina, era il 3 ottobre 2013, arrivai a Palazzo Chigi molto presto. Mentre leggevo i giornali arrivò la prima telefonata della giornata. Era il ministro della Difesa, Mario Mauro, al solito efficiente e mattiniero. I toni erano preoccupati. Mi disse che le notizie giunte nella notte da Lampedusa lasciavano intendere che il naufragio avvenuto vicino alla costa dell’isola, sul versante della spiaggia dei Conigli, avrebbe probabilmente assunto proporzioni agghiaccianti. Decine, forse centinaia, di vittime. I quotidiani finirono nel cestino. Iniziammo una riunione permanente che durò sino all’indomani. Il ministro degli Interni, Angelino Alfano, si adoperò per andare nel pomeriggio a Lampedusa e portare un primo segnale di vicinanza ai sopravvissuti e agli abitanti dell’isola che, sindaco Nicolini in testa, si stavano prodigando per salvare il maggior numero di vite.
Si trattava di una delle peggiori tragedie mai avvenute nel Mediterraneo. Intensificammo al massimo la mobilitazione degli apparati dello Stato. Tuttavia, era lampante che gli strumenti abituali si sarebbero rilevati non sufficienti. Racconti e immagini strazianti. Livelli di disagio impossibili da sostenere per una realtà piccola come quella dell’isola. Stavolta l’ordinaria gestione dell’emergenza non bastava. Perché quello strazio stava li a testimoniare quanto tutta l’Europa doveva comprendere. E cioè che nel Mediterraneo si stava scaricando, col suo immane prezzo di vite umane, il peso del fallimento del governo delle crisi contemporanee. Flussi non controllati di profughi e rifugiati in fuga dagli Stati falliti, instabili o in via di dissoluzione del Maghreb, del Corno d’Africa, del Medio e Vicino Oriente.
Avviammo immediatamente i contatti con Bruxelles, per illustrare la gravità della situazione. In particolare, poiché era in agenda proprio in ottobre una riunione del Consiglio europeo, provammo a creare il consenso per porre il tema di un ripensamento delle politiche dell’immigrazione al centro dei lavori. Pochi giorni dopo, peraltro, si verificò un altro drammatico naufragio in acque maltesi. Intervennero strutture militari congiunte di Roma e La Valletta. La collaborazione col giovane e pragmatico premier maltese, Joseph Muscat, stava dando buoni frutti e le vecchie incomprensioni tra i due Paesi erano archiviate.
È in questo contesto che scegliemmo di chiedere alle istituzioni europee di visitare Lampedusa. Volevamo che vedessero con i propri occhi cosa significasse, per abitanti, volontari e corpi dello Stato, acconciarsi al compito pietoso del recupero dei corpi, all’organizzazione delle camere mortuarie, all’assistenza ai superstiti. La commissionaria competente, la svedese Cecilia Malmström, diede ad Alfano la propria disponibilità. Soprattutto mi colpì la volontà del presidente della Commissione, José Manuel Barroso, di esserci. Al telefono gli spiegai quello che probabilmente sarebbe accaduto. Gli dissi con franchezza che avremmo incontrato tra gli abitanti dell’isola un’esasperazione fuori controllo. Capì. Ma confermò l’impegno a venire.
Preparammo quel viaggio tra molte perplessità. Ricordo le cautele dei miei consiglieri. Arrivammo a Lampedusa il 9 ottobre. L’intensità degli incontri fu tale che allungammo il programma di ora in ora. Come avevo preannunciato a Barroso e Malmström, passammo letteralmente attraverso un fuoco di contestazioni. La popolazione era esasperata, prostrata per l’emergenza e scossa dal dolore cui era costretta ad assistere. Decidemmo di rompere il protocollo di sicurezza e visitare il Centro di accoglienza, il campo nel quale erano ammassati i profughi.
Ci sedemmo a parlare con i volontari, straordinari esempi di un’Italia dignitosa e piena di forza. Le telecamere c’erano, ma stavolta lontane. Avrebbero reso falso quel confronto, che serviva anzitutto a noi, a me, per sapere che succedeva e poi decidere cosa fare. Ascoltammo il sindaco, il presidente della Regione, il prefetto, i militari, gli altri amministratori locali, i commercianti. C’era anche il vescovo di Agrigento, Francesco Montenegro, che nel gennaio 2015 sarebbe stato, con monsignor Menichelli di Ancona, uno dei due nuovi cardinali italiani nominati dal pontefice. Noi lo conoscemmo semplicemente come don Franco.
L’incontro con i superstiti del naufragio fu particolarmente intenso. Le loro paure, il senso di impotenza, lo sguardo perso verso un futuro infranto per sempre da quel che era accaduto. Rimasi colpito da un ragazzo che prese la parola. Poco più che un bambino. Era scappato dal Corno d’Africa, buco nero di un continente che non riesce a uscire dalla sua eterna tradizione. Parlò con una lucidità che mi lasciò senza fiato. Neanche una lacrima. Solo un racconto crudo e il linguaggio asciutto di chi ne ha viste talmente tante da non sconvolgersi più per niente. Non credo che riuscirò mai a dimenticare l’espressione di quel bambino già adulto al quale la vita aveva sottratto ogni cosa.
Tratto da “Andare insieme, andare lontano”