Le infezioni correlate all’assistenza sanitaria rappresentano da sempre un grave problema di sanità pubblica, che si è ulteriormente esacerbato con l’infezione COVID-19. È stata condotta un’analisi retrospettiva (Kenneth E. Sands e altri) dal 1° gennaio 2019 al 31 marzo 2022, in una serie di ospedali statunitensi, che ha indicato, come su circa 5 milioni di ricoveri in 182 ospedali, l’incidenza di infezioni legate all’assistenza (infezioni ospedaliere) sia stata elevata negli oltre 300.000 pazienti ricoverati per COVID-19, rispetto a quelli ricoverati senza. La conclusione a cui giungono gli estensori della ricerca è che i pazienti con COVID-19 possono essere più suscettibili a questo tipo di infezioni e per questo potrebbero essere necessarie, per questi malati, maggiori misure di prevenzione.
Al fine di migliorare la risposta protettiva nei confronti di COVID-19, è stato prodotto un vaccino (BNT162b4) che contiene dei segmenti di componenti (antigeni) di SARS-CoV-2: N, M, ORF1ab (Christina M. Arieta e altri). Questo vaccino induce nei topi delle risposte T linfocitarie dirette non nei confronti dello spike (come i vaccini attualmente impiegati) ma comunque in grado di ridurre, in questi animali, gravità e durata di malattia, essendo meno influenzati dalla presenza delle varianti presenti dello spike. Questo approccio vaccinale potrebbe rappresentare quindi una nuova opportunità per migliorare la protezione contro COVID-19. Un candidato vaccino a nano particelle a base di ferritina, formulato con idrossido di alluminio come adiuvante (Payton A.-B. Weidenbacher e altri), è in grado di indurre la comparsa di anticorpi neutralizzanti, efficaci e duraturi nel tempo in primati non umani, diretti contro diverse varianti di SARS-CoV-2, tra cui Omicron BQ.1, se impiegato come richiamo un anno dopo l’immunizzazione primaria. È stata altresì generata una linea cellulare in grado di produrre migliaia di dosi di questo tipo di vaccino che potrebbe essere utilizzato come richiamo, una volta l’anno o anche più frequentemente, specie nell’età pediatrica ed anche nei neonati. Si è osservato, in uno studio condotto in Cina (Yubin Liu e altri), che un ampio spettro di anticorpi neutralizzanti può essere indotto in individui immunizzati con un vaccino a virus inattivato, il che suggerisce una potenziale indicazione di questo tipo di vaccino e degli anticorpi da questo generati per prevenire le infezioni causate dalle varianti, essendo il vaccino a virus inattivato meno influenzato dalla presenza di queste.
La possibilità di una nuova diagnosi di occlusione vascolare retinica, a seguito della vaccinazione a mRNA contro COVID-19, risulta essere un evento molto raro e soprattutto presenta un tasso di frequenza pari a quello osservato con altri tipi di vaccini, come quello anti influenzale e la trivalente, antidifterite, tetano, pertosse acellulare (Ian Dorney e altri). Questa ricerca è stata anche oggetto di un’attenta revisione critica (Lee M. Jampol, Maureen G. Maguire) che ha sottolineato i diversi aspetti legati a questa rara problematica che non dovrebbe quindi, almeno in linea teorica, rappresentare un ostacolo alla profilassi vaccinale. Un interessante studio (Guangdi Li e altri) ha considerato le opzioni terapeutiche oggi disponibili per il trattamento di COVID-19: farmaci antivirali ed anticorpi monoclonali, approcci terapeutici questi che richiedono un trattamento precoce, entro 10 giorni dell’esordio e farmaci immunomodulatori (antagonisti delle citochine, steroidi) da impiegarsi in pazienti ospedalizzati con COVID-19 grave o critico per controllare la tempesta citochinica, a cui si associa uno stato di iper-infiammazione. Uno studio randomizzato, REMAP-CAP (Writing Committee for the REMAP-CAP Investigators) che ha coinvolto 779 pazienti ha riguardato sia l’impiego di un inibitore dell’enzima ACE2 che di un bloccante del recettore dell’angiotensina, per verificare se questi potevano migliorare la prognosi dei pazienti gravi ricoverati, in termini di riduzione della necessità del supporto alla ventilazione assistita. Dai risultati di questa ricerca è emerso che l’impiego di entrambi questi farmaci in pazienti critici, non solo non ha migliorato l’esito clinico, ma in alcuni casi l’ha addirittura peggiorato. Questo studio REMAP-CAP è stato anche oggetto di una revisione critica (Matthew M. Y. Lee e altri) apparsa sulla stessa rivista, nella quale vengono analizzate in dettaglio, le criticità che sono emerse nella conduzione dello studio e vengono formulate alcune ipotesi per spiegare i risultati, apparentemente contrastanti, che si sono ottenuti. Uno studio di coorte (Alaleh Azhir e altri) condotto in Massachusetts dal luglio 2021 al dicembre 2022, ha indicato come la gravità di COVID-19 sia andato scemando nel corso del tempo.
Questo risultato è sicuramente ascrivibile in prima lettura alla vaccinazione che ha determinato una diminuzione del rischio di forme gravi. È altresì importante ricordare che l’emergenza delle sotto varianti di Omicron, avvenuta in concomitanza temporale con la presenza di un’alta percentuale di vaccinati, ha senz’altro determinato forme più lievi di malattia (minore coinvolgimento polmonare) rispetto alle precedenti varianti. I ceppi di SARS-CoV-2 resistenti a nirmatrelvir (paxlovid), vengono trasmessi in modo efficace nel criceto siriano, anche se mantengono una certa suscettibilità al farmaco, specie se questo viene somministrato a maggiore dosaggio (Rana Abdelnabi e altri). I risultati di questa ricerca sono importanti perché dimostrano come i virus resistenti ai farmaci possono trasmettersi efficacemente, il che sottolinea la necessità di promuovere studi che rendano disponibili al più presto nuove molecole antivirali. Uno studio olandese (Felix Patience Chilunga e altri) condotto in 1886 pazienti, 483 dei quali con long COVID, ha dimostrato che esistono differenze significative sull’incidenza, natura e durata dei sintomi di questa condizione morbosa nell’ambito della popolazione olandese, rispetto a quella migrata. Per questo motivo è importante approntare idonee misure atte a favorire ed allargare l’accesso all’assistenza sanitaria post-COVID ad un elevato numero di pazienti, così da pianificare interventi sanitari appropriati e mirati.
Tra il 15 dicembre 2021 ed il 23 maggio 2022, 21 pazienti con long COVID sono stati trattati nell’ambito di uno studio di fase 2 con un modulatore metabolico endogeno (AXA A 1125) e comparati con un gruppo di controllo di 20 pazienti non trattati (Lucy E.M. Finnigan e altri). In questa ricerca sono stati considerati numerosi parametri per valutare i sintomi legati soprattutto “all’affaticamento”. Il trattamento con il farmaco in questione non ha migliorato la respirazione cellulare, che rappresentava l’obiettivo principale della ricerca, ma è stato comunque in grado di migliorare alcuni sintomi riferiti alla fatica in pazienti con long COVID per una durata di circa 4 settimane.