L’11 febbraio è stata celebrata la Giornata Internazionale delle Donne e delle Ragazze nella Scienza. Istituita dall’ONU nel 2015, la Giornata ricorda che le discipline scientifiche, tecnologiche e matematiche non sono “cose da uomini”, ma, anche in questo campo, le donne possono e devono dare il loro contributo. Nonostante siano passati anni dall’istituzione della Giornata, gli ultimi dati mostrano che non c’è ancora stata una sostanziale inversione di tendenza. Infatti, secondo l’ultimo rapporto UNESCO, l’iscrizione delle ragazze a facoltà scientifiche è ancora molto basso. La resistenza verso le discipline STEM è sintomatica di un modo di pensare ancora ancorato al pregiudizio, secondo cui le donne non possono essere scienziate. Si tratta di un’ingiustizia che genera disuguaglianza, soprattutto laddove costringe una ragazza a dover rinunciare alle proprie aspirazioni. Allo stesso modo, genera disuguaglianza la difficoltà delle donne, soprattutto se mamme, a trovare un lavoro. La pandemia ha reso evidenti, infatti, le difficoltà che una mamma deve affrontare quotidianamente, dal lavoro di cura alle legittime aspirazioni professionali, alle quali, spesso, rinuncia perché la società non è in grado di gestire le esigenze di conciliazione delle lavoratrici.
Pensare, però, di risolvere il tema delle disuguaglianze attraverso arroccamenti ideologici può essere fuorviante e, in un mondo tanto lacerato, anche pericoloso. Le disuguaglianze non si annullano cancellando le differenze, né tantomeno attaccando etichette che non solo non valorizzano, ma contribuiscono a creare ghetti virtuali in cui si smette di essere persone per diventare “categorie”. Negare la differenza significa negare l’identità di ogni persona, che è in grado di lasciare un segno nel mondo che nessuno potrà mai lasciare. Per questo, pensare di liberarsi di pregiudizi e stereotipi attraverso una “schwa” vuol dire non voler riconoscere la bellezza e la ricchezza che viene dall’incontro delle differenze, in cui ciascuno è portatore di valori e di tensioni morali, culturali, affettive, a partire dalla comune natura umana.
La strada per la parità non passa dalla negazione, ma attraversa la relazione. Riconoscersi come uguali che si arricchiscono grazie all’unicità di cui sono portatori vuol dire riconoscere che ciascuno è chiamato a contribuire alla crescita e al progresso della società in cui vive, secondo le proprie aspirazioni e “senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”, secondo quanto recita il primo comma dell’art. 3 della Costituzione Italiana. Non può esserci rispetto se non nella relazione, che rispetta le differenze e le considera ricchezza. L’alternativa è l’annullamento delle differenze, l’indifferenziato, in cui nulla ha nome perché nessuno ha identità.
Pinella Crimì, membro del consiglio direttivo del Forum Nazionale delle famiglie