È legittimo non essere d’accordo. È doveroso dissentire quando si è convinti della bontà delle proprie idee e della correttezza delle proprie intenzioni. In un universo stracolmo di “yes-man” ben vengano le voci dissonanti, “macte virtute” all’ardimento di chi esprime le proprie opinioni con vivida determinazione, onore a chi paga il prezzo più alto per sventolare un ideale o supportare una causa. Purtroppo quel che stiamo leggendo sui giornali a proposito dell’attacco via internet a Mattarella non rientra certo nella casistica appena elencata. I fatti che infiammano la cronaca non evocano certo i discorsi coraggiosi di Martin Luther King, non somigliano alla ribellione di Antigone narrata da Sofocle, non hanno nulla di eroico o encomiabile. L’aggressione digitale – al grido (o all’hashtag) di “impeachment, impeachment” – è stata semplicemente un atto vile che rispecchia il “train de vie” di chi popola la Rete e furoreggia su quelle piattaforme di aggregazione che di sociale hanno soltanto il nome.
Quel che maggiormente sconforta è il forte sospetto (tale da aver incendiato la miccia delle polemiche) che la disdicevole azione sia frutto di una invasione digitale proveniente da “oltrecortina” e possa essere stata innescata da sostenitori di formazioni politiche interessate a delegittimare il Capo dello Stato, “colpevole” di non condividere e non accettare determinate prospettive di governo. Quel che è ancor più grave è che i Golia o i Balilla del web non abbiano sfidato a volto scoperto e in maniera frontale l’avversario, ma fatto ricorso ad anonime truppe di “profili” fasulli creati ad arte per comporre le schiere incaricate di sferrare l’attacco. Siamo parecchio lontani dall’ “ora e sempre Resistenza”. La guerra partigiana, se mai qualcuno ne volesse trovare affinità, è stata – qualunque sia la prospettiva con cui considerarla – una cosa radicalmente diversa. Il fantasioso nome di battaglia scelto dai “comandanti” identificava comunque in maniera univoca chi aveva scelto un qualunque appellativo diverso dalle proprie generalità ufficiali. I nomi – più o meno bizzarri – usati nel combattimento virtuale non nascondono un idealista pronto a pagare con la propria vita, ma sono soltanto uno degli ingredienti per l’auspicato anonimato di chi ambisce a sfuggire dalle proprie responsabilità. Il sogno dell’invisibilità telematica – secondo solo a quello dell’immortalità della pietra filosofale – si è incuneato nel vivere quotidiano, aprendo la breccia in chi è animato da un irrefrenabile spirito di revenche e pretende di restare impunito a fronte di comportamenti beceri o addirittura criminali. Internet ha così, poco alla volta, acquisito il ruolo di alambicco, capace di distillare i peggiori sentimenti e di diffondere nell’atmosfera circostante il cattivo odore delle bucce macerate di infime pulsioni e rabbiose emozioni.
L’odio gratuito e indistinto è così diventato il sangue che corre nelle vene dell’apparato cardiocircolatorio globale dei social network. Al pari delle “pilloline” che regolano la pressione arteriosa, i “troll” (agit-prop del terzo millennio) sono pronti a fomentare, risvegliare e incitare chi soffre di “ipotensione”. Il clima politico – rimasto “elettorale” a distanza di mesi dalle consultazioni – ha condizionato i comportamenti online. In un Paese praticamente a pezzi, invece di soffiare nelle vele un sano vento di coesione e solidarietà, si è scatenato un uragano di animate esecrazioni e di espressioni di disprezzo non sempre urbane. I leader, dal Governo alle opposizioni, non si siedono al tavolo per risolvere i problemi dell’Italia ma preferiscono tuonare dall’alto di smartphone e tablet con sintetici messaggi che vorrebbero emulare il “Veni, Vidi, Vici”. L’alzare scompostamente la voce attraverso Twitter, Facebook o Instagram sicuramente infervora le torme di seguaci, ma a guardar bene non getta le basi per un futuro migliore. Il tutti contro tutti (o, peggio, tutti contro qualcosa o qualcuno) non porta da nessuna parte e logora le già difficili condizioni della convivenza quotidiana. Il coraggio –quello cui facevo cenno qualche riga fa – deve tornare a galla. Il coraggio è quello di stemperare i toni, stoppando il vortice di violenza verbale che ogni giorno di più ricorda il lancio di escrementi nelle pale rotanti di un ventilatore. La storia dovrebbe insegnarci qualcosa. Le pagine di Pirro in particolare. Trionfare sulle macerie forse non vale la pena.
La vera rivoluzione può cominciare proprio da Internet, magari con una grande lezione di civiltà che spiazzerebbe l’intero pianeta, che lascerebbe sbigottito il mondo che guarda con commiserazione il nostro declino. Il consenso non si misura con il numero di “followers” o con la quantità di “like” raccattati con roboanti dichiarazioni in una manciata di caratteri sparati in Rete. La drammatica situazione in cui viviamo ha indiscusso e indiscutibile bisogno di fatti concreti il cui esito sarà la vera pagella. Chiudiamo il rubinetto della violenza verbale e proviamo faticosamente ad aprire quello del confronto educato e leale. Proviamo a dare il buon esempio. Qualche mese fa c’era chi vantava – proprio attraverso i social – di poter contare su oltre il 40% dell’elettorato. Era l’ammiraglio dell’Invincible Armada della rottamazione ed è finito rottamato lui stesso, franato sull’inconsistente macigno di tweet e post. La ciurma delle centinaia di migliaia di seguaci frutto di facile acquisto online genera condivisioni e rimbalzi delle arringhe digitali, regala l’illusione di una endemica adesione a questo o quel proclama, amplifica una forza che potrebbe non corrispondere all’energia popolare, dissoda le zolle in cui germogliano insofferenza e astio. I fatti recenti hanno dimostrato non esser quella la ricetta vincente o la panacea, perché prima o poi arriva chi strilla più forte o scova la bassezza più ammaliante. È il momento di cambiar rotta. Sì, proviamo a dare il buon esempio. Veicoliamo la solidarietà, sconfiggendo l’attrito di chi per convenzione non vuole ricordarsi di esser buono, tollerante, ospitale. Rispettiamo le regole, le stesse regole che lamentiamo non esser osservate dagli avversari, le medesime che riteniamo non vengano onorate da chi sbarca nel nostro Paese, proprio quelle che qualche volta vengono violate anche da chi rappresenta non sempre degnamente le istituzioni. Se Internet è davvero la culla della moderna democrazia, insulti e oltraggi non devono avere spazio. Se invece quella è l’apoteosi della libertà di espressione, probabilmente sono io ad esser fuori luogo. E me ne scuso, restando però fermamente convinto delle mie opinabili convinzioni.
Umberto Rapetto
Generale GdF (r) – già comandante del GAT Nucleo Speciale Frodi Telematiche
Docente universitario, giornalista e scrittore
CEO @ HKAO Human Knowledge As Opportunity srl
Consigliere di Amministrazione di Olidata S.p.A.