In una democrazia è un diritto, ma anche un dovere, quello di tutti cittadini di controllare l’attività dei pubblici poteri. E da questo punto di vista diventa centrale la figura del giornalista. La funzione di questi è particolarmente valorizzata nelle sentenze della Corte di giustizia europea che ha fatto riferimento al “cane da guardia pubblico”, riprendendo una definizione anglosassone, a tutela della democrazia e del pluralismo delle opinioni.
Anche con riferimento al controllo dell’attività giudiziaria alla stampa deve essere assicurata piena libertà nell’affrontare i temi che riguardano fatti sottoposti al vaglio del giudice e del pubblico ministero, perché la stessa natura del processo accusatorio che il legislatore ha voluto porre a modello nel nostro sistema penale considera come pubblico il il dibattimento, potendo la collettività essere presente anche nella fase di acquisizione delle prove. Ciò ovviamente non è regola che vale durante le indagini preliminari potendo, quel segmento procedimentale, proprio la pubblicità danneggiare la acquisizione degli elementi di prova.
Pur tuttavia abbiamo visto trasmissioni televisive giornalistiche che si sono via via trasformate da momento in cui si presentava la cronaca di un processo raccontando ciò che accadeva in un’aula, a luogo in cui i fatti rilevanti penalmente venivano trattati in modo indipendente dalla vicenda processuale che pur si stava contemporaneamente celebrando nelle aule di giustizia, ma, e ciò è ben grave, anche in sede di prima istruttoria svolta dai pubblici ministeri e dalla polizia giudiziaria.
Il problema non è di poco conto poiché è chiaro che un intervento da parte di un mezzo mediatico comporta nella collettività un forte impatto emotivo, predispone la comunità ad una tesi colpevolista o innocentista, dirige volontariamente o involontariamente la sensibilità di questa, preconfeziona tesi suggestive quanto improvvisate; ma ancor di più si registra una frenetica ricerca da parte di taluni giornalisti di prove testimoniali e documentali arrivando sino al punto di trasmettere letture di intercettazioni telefoniche fatte da attori che interpretano le parti processuali, cioè l’imputato, la parte offesa e i testimoni. Da qui inflessioni di voce probabilmente romanzate che distorcono il senso di ciò che è stato detto ma, ancor più grave, ricostruzioni che, anche quando sono fatte in buona fede, risultano parziali ed incomplete.
Tutto questo si svolge in studi televisivi dove presunti esperti recitano la parte di sostenitore dell’accusa o della difesa, sedicenti tecnici di materie specializzate sono sempre pronti a fornire il proprio contributo pseudoscientifico o, al meglio, basato su valutazioni di chi non ha potuto esaminare le prove direttamente. Ed i testimoni sentiti dalle forze dell’ordine sono chiamati a ripetere le proprie dichiarazioni, talvolta anticipando quanto andranno a dire a polizia e carabinieri, così creando un enorme confusione processuale fatta di una pluralità di affermazioni contraddittorie che si ripercuoteranno negativamente sull’accertamento fatto innanzi al giudice. Promuovendo così comportamenti al meglio esibizionistici, alla peggio mossi da voglia di notorietà o di denaro.
Tutto in funzione di un format televisivo che persegue il massimo dell’audience, muovendosi in base a un copione che sembra riscuotere maggiore interesse quanto più si allontana dagli atti processuali. Il danno alla credibilità del sistema è di rilevante spessore. Il processo è fatto di regole che devono essere necessariamente seguite perché le prove possano essere prese in considerazione dal giudice.
Così facendo il giudizio diventa pettegolezzo, la cronaca, che per sua natura dovrebbe essere chiara, accurata ed imparziale, si trasforma in chiacchiera maliziosa, la supponenza nel sostenere tesi preconfezionate prende il posto di quel che è alla base di ogni accertamento processuale: il sano contraddittorio nel confronto delle parti.
E, sullo sfondo, viene evocata “la gente comune” che, fortunatamente tale non è. Non è infatti normale prendersi a spintoni per apparire in televisione, per cercare il proprio quarto d’ora di celebrità urlando la certezza delle proprie tesi o scagliandosi contro il lassismo di un sistema giudiziario che soltanto un minuto dopo può essere definito troppo severo o intransigente sino alla crudeltà.
Una continua ricerca di consenso che, lo si è visto pochi giorni fa, ha portato a una intera collettività a essere indicata come pusillanime o indifferente soltanto perché non era scesa in piazza dinnanzi alle telecamere ad urlare la propria indignazione per un grave fatto di cronaca. Il sindaco del Comune – il quale spiegava che la sua popolazione attendeva una risposta giudiziaria senza aver bisogno che i cittadini si proponessero alle televisioni – è stato quasi accusato di non voler cercare sino in fondo la verità su quello che era accaduto, addirittura si è lasciato intendere che volesse proteggere interessi oscuri.
Su tutto questo occorre una riflessione che investa la deontologia dei cronisti, soprattutto di quelli televisivi, che stanno trasformando, fatti di cronaca nera in questioni in cui, ad arte, si gestisce il consenso, si dirige la pubblica opinione, si cerca non soltanto audience – il che da sé sarebbe già ben grave – ma anche ammiccamenti pericolosamente allusivi, suggerendo sentenze, invocando pudori , proponendo ipocrite valutazioni morali che si sovrappongono e si confondono con le responsabilità penali.
Se i giornalisti non porranno in essere una rigorosa riflessione deontologica presto la credibilità della loro categoria sarà erosa e la collettività non vedrà più in loro il garante della collettività che svela quei fatti che il comune cittadino non può conoscere, ma che sono alla base delle sue scelte consapevoli. Essere “i cani da guardia della democrazia” responsabilizza tutti gli operatori della comunicazione. Ciò comporta che non possa essere più posticipato un ragionamento sul limite che prima ancora di essere insuperabile confine comportamentale, si pone come base stessa della credibilità di quanto leggiamo e vediamo quotidianamente in televisione e sugli altri mass media.
Paolo Auriemma, Procuratore capo di Viterbo