Il 14 agosto è divenuto l’anniversario di uno dei peggiori disastri stradali di cui l’Italia abbia memoria e l’inizio di una discussione infinita su come vadano gestite le autostrade italiane, se mantenere le attuali concessioni ai privati o tornare sotto un controllo completo da parte dello stato, cosa che, in effetti, sarebbe comune con diversi altri stati al mondo, dalla Germania agli Usa. Al di là di questo, però, in Italia esiste un problema strutturale nella gestione e nella manutenzione del territorio, dalle strade al rischio idrogeologico, che, ciclicamente, sfocia in un’emergenza che può sfociare in una tragedia. Già l’alluvione in Valtellina nel 1987 aveva rappresentato un campanello d’allarme poiché buona parte dei disastri innescati dalle forti piogge sono stati causati principalmente dalla mancata pulizia dei torrenti affluenti nell’Adda e, nel caso della frana del monte Zandila, dalla mancata manutenzione dei boschi e dei declivi montuosi ma con il crollo del ponte Morandi nei pressi di Genova l’immagine del costo della mancata manutenzione e degli investimenti di ammodernamento e conservazione infrastrutturale è balzata agli occhi di tutti. A voler essere puntigliosi questo problema non è solo italiano ma è presente anche in molti altri paesi sviluppati, spesso, indicati come più efficienti e virtuosi ma il vecchio proverbio “mal comune mezzo gaudio” non è certo consolatorio e sulla situazione dello stivale andrebbe fatto un ragionamento molto serio.
Nonostante i criteri di bilancio pubblico per cassa computino ogni investimento infrastrutturale come una componente negativa di reddito non si può tralasciare che ogni investimento abbia un apporto positivo dal lato del calcolo del PIL e dell’indotto, permettendo di “mettere in moto” un sistema virtuoso di crescita che, senza scomodare la vulgata keynesiana, ha dei ritorni positivi e misurabili su tutto il paese, non solo dal lato occupazionale; questo punto, però, per mere ragioni contabili e di “costi” legati alle norme relative, tempo per tempo emanate, per l’approvazione dei lavori e per l’assegnazione degli appalti di realizzazione unitamente ai controlli e alle pratiche burocratiche che seguono, spesso fin troppo, tutti i cantieri impiegano anche anni per essere aperti e, nel frattempo, la realizzazione di tutte queste opere resta sospesa in un limbo che sembra non aver mai fine. Tutto questo ha un costo, un costo ingente, che non è dovuto solo agli eventuali incidenti che possano avvenire per la mancanza di manutenzione o di ammodernamento degli impianti, come nel caso citato del ponte ligure, ma anche relativo a una minor crescita e al disincentivo agli investimenti che questo va a creare. Mentre, però, l’indotto delle opere in via di realizzazione è relativamente facile da misurare, è possibile quantificare quanto, invece, la mancata realizzazione possa costare? A tal proposito, anni fa, nacque, in seno a una società di ricerca e Consulenza, Agici Finanza d’Impresa, un osservatorio chiamato CNF, i Costi del Non Fare, che periodicamente redige un report analitico illustrando quanto costi all’Italia, in particolare, il ritardo infrastrutturale. I punti aperti sono diversi e vanno dalle infrastrutture viarie, strade e ferrovie, alle telecomunicazioni, dall’energia, alla gestione dei rifiuti e dell’acqua. Il risultato è impietoso. Il calcolo proietta una costo potenziale di oltre 600 miliardi di euro nei 15 anni tra il 2015 e il 2030, cifra che equivale a oltre un terzo del PIL a valori attuali e che potrebbe essere visto come una crescita mancata di quasi un 1% annuo.
Perché la definisco crescita mancata? Perché, come accennavo poco fa, gli investimenti infrastrutturali generano un indotto non trascurabile non solo dal lato della creazione di lavoro e di sostegno, quindi, alla domanda aggregata come qualcuno potrebbe affermare ricordando gli studi del primo anno di economia, ma anche e soprattutto perché già solo in fase di realizzazione generano aspettative positive verso un possibile ambiente più efficiente e competitivo e, una volta portate a termine, permettono di avere un servizio ad alto valore aggiunto che è prodromico agli investimenti. Una moderna rete stradale e ferroviaria, ad esempio, va a rendere più efficienti ed economici, fosse anche solo dal lato del tempo, gli spostamenti e la logistica, un sistema energetico efficiente permetterebbe di avere energia in abbondanza e a buon costo sia per gli usi privati sia per gli usi industriali, una buona rete di telecomunicazioni, leggi oggi la diffusione della “banda larga” permetterebbe di migliorare i canali comunicativi, di efficientare il sistema lavorativo anche con le connessioni in remoto, etc.
Tutto questo va a spingere gli investimenti, l’occupazione e la produttività, in pratica a creare le condizioni affinché il sistema produttivo possa crescere, sia dal lato dell’industria tout court sia da quello dei servizi. Sembrerebbe una banalità dire che rimandare o non fare le opere porti un beneficio contabile nel breve ma comporti criticità e costi che potrebbero avere effetti recessivi nel futuro ma non lo è. Da diversi anni si è affermata un’idea ragionieristica nella gestione dei conti dello stato, probabilmente spinta da una errata interpretazione dei criteri di stabilità degli stessi, che non permette di distinguere veramente quella che sia la spesa corrente da quelli che siano gli investimenti, la prima va, ovviamente, gestita in maniera efficiente contenendola nei limiti necessari, i secondi, invece, come per le aziende i costi di R&D oggi, sono essenziali per garantire il futuro; anche per uno stato gli investimenti infrastrutturali sono necessari per garantire la stabilità del suo sistema economico e, alla fine, della sua contabilità nazionale.
Sappiamo tutti, soprattutto per via dei media, che il parametro principe per giudicare la sostenibilità finanziaria di un sistema paese sia il rapporto debito/PIL. Per minimizzarne il valore è possibile agire in due maniere o contenendo il numeratore o ampliando il denominatore e nel breve termine la prima soluzione è senza dubbio la più efficace, visto che per tagliare il debito basterebbe diminuire la spesa o innalzare il prelievo fiscale. Il problema è che, come si è visto con l’esperienza del Governo Monti, questa azione ha un effetto recessivo e, quindi, potrebbe avere un effetto contrario al quanto auspicato poiché il calo del PIL, spinto dalla manovra recessiva potrebbe causare anche una diminuzione del gettito fiscale non supportata da una sufficiente riduzione di spesa e il rapporto debito/PIL andrebbe così a crescere invece che a diminuire. D’altro canto anche spingere la crescita, a debito, genererebbe un rischio similare poiché il numeratore potrebbe crescere in maniera più repentina del denominatore.
La soluzione vera è la sintesi delle due ipotesi, andando ad agire sulla spesa corrente per minimizzarla laddove possibile ed ottimizzarla altrove, spostando le risorse dal lato degli investimenti per spingere la crescita, cosa che, poi, permetterebbe anche di ridurre le imposte anche a parità di gettito in un circolo virtuoso che apporterebbe migliorie sia dal lato dei redditi delle famiglie sia dal lato delle imprese e dei conti dello stato stessi. Il ritardo infrastrutturale, quindi, può benissimo essere considerato un costo, ingente, che grava su cittadini e imprese, mentre la mancata manutenzione dell’esistente pur apparendo come un risparmio momentaneo rappresenta, oltre che a un pericolo per la sicurezza delle persone, un costo anch’essa, un costo finanziario importante quando non diviene un costo in vite umane che, contrariamente al primo, non può essere quantificato in termini contabili ma è ben più pesante per tutti.