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Green Bond e “Green new deal”, economia al verde?

Quando si parla di economia sostenibile si dimentica, spesso, che un sistema economico efficiente sia sostenibile di per suo e non si intende, ovviamente, di una mera sostenibilità finanziaria nel breve termine ma di un equilibrio che permetta la migliore allocazione delle risorse possibile.

Sembrerebbe, questa, una mera esposizione teoretica ma, se uno facesse caso alla storia economica dell’umanità, tutta l’evoluzione tecnologica e commerciale si è rivolta, nel medio-lungo periodo, verso innovazioni e sistemi organizzativi più efficienti e più compatibili con l’ambiente che, in ogni caso, rappresenta uno degli asset fondamentali nel complesso dei bisogni avvertiti dall’uomo.

Certo è che leggendo o ascoltando notizie e commenti sui vari media l’impressione sarebbe completamente opposta anche perché da qualche decennio a questa parte le tematiche ambientali sono state usate come una clava dalla politica per giustificare nuovi aggravi di spesa (e quindi nuove imposte) o nuove normative (e quindi maggiori controlli e maggior occupazione, a volte in funzione clientelare).

Detto questo no, non si vuole negare che un problema ambientale, oggi, ci sia, benché sia causato principalmente dal serrato processo di sviluppo di alcuni paesi (Cina e India su tutti), non dall’ingordigia e dall’egoismo del “ricco” occidente, e che occorra una svolta anche se, probabilmente, potrebbe non essere quella che in tanti immaginano, spesso condizionati dai vari messaggi che si captano a ogni livello, dal bancone del bar al talk show.

Da anni la retorica ambientalista, in Italia sdoganata prima dal PCI tramite le sue associazioni e poi dalla federazione dei Verdi prima e dal “grillismo” in questi anni, ha creato numerosi aggravi di spesa per i cittadini, dalla carbon tax alla quota maggioritaria degli “oneri di sistema” che serve ad alimentare gli incentivi per le energie rinnovabili senza portare ad alcun sensibile miglioramento, anzi creando dei problemi, sia a livello di competitività del sistema economico, sia a livello di approvvigionamento energetico che, con la dismissione del programma nucleare e l’accento posto su eolico e solare, come fonti energetiche, ha portato il Paese ad essere uno dei più grandi importatori di energia dall’estero.

Oggi la sensibilità verso le tematiche ambientali che, nel tempo, si è sviluppata nella popolazione occidentale (perché in Asia e in Africa, va sottolineato, c’è assai poca attenzione sull’argomento) ha portato a una convergenza sulle tematiche ambientali sotto l’etichetta, coniata da Thomas Friedman nel 2007, di Green New Deal che è diventata una bandiera della fazione liberal in USA e del programma per il futuro in Europa.

La Commissione Europea, a guida di Ursula von der Leyen, ha inserito un preciso percorso di implementazione di questo “piano verde” già all’interno del programma NGEU con l’ambizione di arrivare ad avere un continente a “neutralità climatica” entro il 2050.

Proprio su questo termine, “neutralità climatica”, si fonda tutto un impianto politico che dovrebbe passare per la decarbonificazione con la sostituzione dei combustibili fossili con fonti rinnovabili di energia, l’impianto di un’industria sostenibile applicando il principio di “economia circolare”, una filiera corta nella produzione del cibo, la creazione di un sistema di mobilità sostenibile e la tutela della biodiversità.

A primo acchito sembrerebbe di leggere un programma scritto da Serge Latouche e basato su una “decrescita felice” ma non è così, in quanto l’obiettivo dichiarato sarebbe quello di creare un circolo virtuoso di crescita economica che possa essere compatibile con la tutela dell’ambiente e l’aumento del benessere dei cittadini. Un sogno che si scontra con il monito di Robert A. Heinlein TANSTAAFL (There Ain’t No Such Thing As A Free Lunch) che potrebbe essere parafrasato con un laconico “e chi paga?”.

L’inserimento del piano nel programma NGEU, infatti, è prodromico a questo: a cercare, cioè, le risorse per finanziare la “transizione verde” ma, in pratica, a scaricare sulle future generazioni il costo di questa accelerazione, sorta in maniera “spontanea”, alla sostenibilità ambientale. Il perché di questa affermazione è abbastanza intuitivo.

Il miglioramento della sostenibilità ambientale è sempre avvenuto, fino ad oggi, tramite il progresso tecnologico, con la ricerca, lo sviluppo e l’adozione di nuove soluzioni più convenienti (e, di fatto, meno costose nel medio periodo, dovendo conteggiare anche le minori spese di bonifica o di contenimento dell’inquinamento) da parte di privati ed aziende.

Negli ultimi anni, invece, si è assistito a un indirizzamento delle scelte dovuto a incentivi di vario genere, che vanno dall’impianto dei sistemi domestici di generazione energetica (pannelli solari o microeolico) alla spinta all’auto elettrica invece che quella alimentata da motori a combustione, tutto questo a spese dell’Erario, quindi suddividendo il costo, per via fiscale, su tutta la popolazione. In quest’ottica nasce il green bond, cioè l’obbligazione emessa dall’UE volta a finanziare il progetto di transizione, contando di raccogliere finanziamenti per 250 miliardi di euro entro il 2026

La prima tranche di 12 miliardi ha avuto ordini pari a 11 volte l’offerta e questo viene dipinto come un successo strepitoso, cosa che è a livello finanziario spingendo il tasso di interesse verso il basso, ma quello che non si dice (o, meglio, non si vuole dire) è chi rimborserà questo capitale che viene acquisito a titolo di prestito dal settore privato.

Difficile immaginarlo? No, ovviamente, scritta così è ovvio che sarà lo stesso settore privato a ripagare il bond attraverso la tassazione. Se l’azione dell’UE fosse prodromica a una maggiore crescita sarà questa a finanziare il rimborso, altrimenti, come è avvenuto in Italia nell’ultimo quarto di secolo il tutto finirà in un aggravio di imposta.

Come si nota, finora, non si è fatto alcun cenno alla questione climatica e ambientale ma si è solo guardato l’aspetto politico e finanziario, questo perché l’ambiente dovrebbe essere considerato un elemento fondamentale nel processo di crescita economica come è sempre stato finché la politica non ci ha messo mano negli ultimi decenni più con una visione utilitaristica di breve periodo, a livello elettorale o clientelare, invece che di vero indirizzo per permettere la massimizzazione dell’utilità collettiva e, di conseguenza, del benessere dei cittadini che non può prescindere dalla qualità dell’ambiente in cui vivono.

Non può, quindi, mancare un certo scetticismo sul “piano verde” europeo, vista la storia pregressa, ma se questo fosse volto veramente allo sviluppo, stimolando investimenti più che riconversioni, potrebbe essere realmente una svolta per tutti; lo capiremo solo nei prossimi anni, però.

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