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Gli Usa dicono addio al Green new deal: i riflessi in Europa

Di Donald Trump si possono dire tante cose, tranne che sia un attendista o che rimanga con le mani in mano. Già nel giorno dell’insediamento alla Casa Bianca, infatti, non ha aspettato un momento per iniziare a lavorare e impostare le linee guida del suo nuovo quadriennio alla guida degli USA firmando i primi 42 ordini esecutivi già nelle dodici ore seguenti la cerimonia. Tra i vari argomenti trattati in questi quelli che stanno avendo più eco sono relativi a economia, energia e clima che segnano, di fatto, la fine del Green New Deal lanciato sotto la presidenza di Joe Biden.

In pratica il nuovo corso trumpiano porterà gli Stati Uniti a lasciare l’Accordo di Parigi del 2015, eliminare ogni incentivo all’acquisto di automobili elettriche e sui vincoli futuri all’acquisto di automobili a motore endotermico (e questo potrebbe far intuire quali siano le future mosse delle società del suo alleato Elon Musk, ma questo è un altro discorso), il congelamento della costruzione di nuovi campi eolici e il rilancio della ricerca e dell’estrazione di gas e petrolio. Un grande reset relativo alla politica ambientale condotta negli ultimi anni, quindi.

Se, da un lato, questa impostazione potrebbe far pensare a un arretramento sulla tutela dell’ambiente, dall’altro un’analisi del futuro scenario non è così scontata, con buona pace degli allarmisti climatici, perché nessuno, nemmeno i “MAGA” più accaniti, potrebbe obiettare sulla necessità di difendere e preservare l’ambiente – a nessuno piace vivere in una discarica o immerso nell’inquinamento, infatti – ma si riapre la porta alla ricerca e all’innovazione che la politica aveva obbligato a seguire, almeno in America e in Europa, un percorso prestabilito a priori, potremmo dire in maniera ideologica, senza alcuna considerazione della sostenibilità economica e ambientale di questo “sentiero dorato”.

Viene meno, quindi, l’idea della centralità dell’elettricità per l’alimentazione di mobilità e riscaldamento, principalmente, che era diventata un moloch, incurante del fatto che quella non è una fonte energetica ma va prodotta e l’eventuale abbandono repentino degli idrocarburi avrebbe necessitato un aumento considerevole della produzione di KWh per il rifornimento dei vari dispositivi che, di fatto, avrebbe dovuto essere supportata o da una maggiore estensione di centrali a energie rinnovabili (principalmente fotovoltaiche e eoliche, poiché quelle gravitazionali, cioè l’idroelettrico, scontano diversi impedimenti fisici a nuove installazioni), unita alla creazione di immensi centri di stoccaggio per accumulare l’energia prodotta in eccesso per i picchi notturni o in situazione di bonaccia) o un maggior ricorso alle centrali termiche e nucleari, che non sono certamente gradite agli ambientalisti, tertium non datur.

In ogni caso questo caso avrebbe comportato dei seri problemi sull’ambiente perché le centrali tradizionali consumano e inquinano, anche se sempre di meno, mentre la creazione dei centri di stoccaggio, oltre che la diffusione di batterie per l’accumulo casalinghe e industriali unite a quelle necessarie per gli autoveicoli, avrebbe comportato la necessità sempre maggiore di approvvigionamento di terre rare nonché di un enorme consumo di acqua, il tutto necessario alla costruzione delle batterie stesse.

Di fatto, quindi, la soluzione al problema dell’inquinamento dovuto alla produzione di energia rischiava di essere almeno altrettanto dannosa del sistema che si voleva sostituire anche considerando che i costi per sostenere questo cambio di paradigma si annunciavano stratosferici e il loro sostentamento sarebbe arrivato per via fiscale, sottraendo così risorse sia alla ricerca sia agli investimenti, privati e pubblici, tout court solo per inseguire una soluzione che, a tavolino, era stata giudicata l’unica percorribile. Ora non più.

Al di là dell’iconografia antiambientalista in cui si vuol inserire l’azione dell’attuale POTUS, nonostante le politiche “green” gli USA lo scorso anno sono arrivati secondi nella secondi, a livello aggregato, nella sicuramente non prestigiosa, classifica degli stati con la più elevata emissione di gas serra dietro la Cina (anche se con un terzo delle emissioni totali) come rileva un report del Parlamento Europeo ma sono ben oltre il 100° posto, il 102° per l’esattezza, nella classifica di IQAir se si normalizzasse il risultato per l’estensione del territorio (la Cina si colloca al 19° posto e l’Italia, per dare un termine di paragone, è al 71° posto).

Difficilmente, quindi, la decisione di Trump porterà a un reale peggioramento della situazione ma, per contro, in linea teorica potrebbe portare, come già accennato, a un ampliamento degli orizzonti di ricerca verso soluzioni più sostenibili e efficaci nella lotta all’inquinamento, eliminando il caveat politico imposto dalla precedente amministrazione. La domanda che sorge, ora, è “ma tutto questo cosa potrebbe comportare per l’Europa?”.

La questione è assolutamente interessante perché nel Vecchio Continente, in un certo senso, si è andati ben oltre il progetto americano, avendo già emanato un regolamento, il 2023/851 che novella il precedente 2019/631, che vieterà l’immatricolazione di nuove automobili a motorizzazione endotermica dal 2035 e una road map al 2050 per la decarbonificazione della produzione energetica e la conversione delle abitazioni secondo dei criteri di efficienza energetica nei prossimi anni.

Inutile dire che, come spesso accade, le decisioni calate da Bruxelles restano di difficile comprensione perché, come in questo caso, hanno un impatto rilevante e, a volte, penalizzante a livello economico, quasi come se i tecnici che redigono i provvedimenti non abbiano alcuna contezza della sostenibilità, non ambientale in questo caso ma squisitamente contabile, delle norme che, poi, Consiglio e Parlamento andranno a votare.

Gli effetti negativi del Green New Deal locale si sono già fatti sentire con una crescita dei costi energetici per l’addio, inspiegabile, al nucleare da parte di diversi stati membri, di cui l’Italia fu l’antesignana a fine anni 80, e la crisi del settore automobilistico dovuta non solo alla crescita incontrollata dei prezzi che sono raddoppiati a ppa rispetto ai primi anni 2000 ma anche all’incertezza da parte degli acquirenti sulle future possibili limitazioni alla circolazione dei mezzi, che spingono a posticipare ogni possibile decisione di acquisto, e a investimenti sballati da parte delle case automobilistiche per la conversione elettrica.

In più, a questa situazione, si aggiunge oggi lo scandalo che sta montando in seno alle istituzioni dell’Unione che parte da un’inchiesta del quotidiano olandese De Telegraaf. In pratica si sarebbe verificato un caso di lobbismo al contrario, con la Commissione UE che, per anni, avrebbe sovvenzionato gruppi ecologisti per spingere gli eurodeputati a sostenere il piano di riforme voluto da Frans Timmermans, ex commissario europeo per il clima e vicepresidente esecutivo della Commissione europea per il Green Deal.

Questo, ovviamente, fa scendere una patina di dubbio sulle vere motivazioni che si nascondono dietro l’azione dell’UE stessa in campo ambientale, visti anche i risvolti negativi alle decisioni prese sopra indicati, che dovrebbero mettere in discussione tutto l’impianto finora portato avanti in ambito unitario, come già il PPE, già nel dicembre scorso, ha già fatto chiedendo l’annullamento del regolamento sulle auto.

Ora l’azione di Trump, unita a queste rivelazioni, mette in forse tutto il Green Deal europeo perché se internamente anche solo il dubbio di un’azione eterodiretta dovrebbe spingere almeno a congelare il tutto in attesa di ulteriori e opportune verifiche sia sull’utilità dell’impianto riformistico sia sulla sua sostenibilità, la chiusura del programma equivalente oltreoceano, per andare verso un’azione più pragmatica e economicamente produttiva, metterà sicuramente ogni aspetto del piano “fuori mercato”, rischiando di penalizzare ulteriormente il sistema economico continentale riducendo sensibilmente le risorse sia per lo sviluppo e, da qui, la necessità di un grande reset anche in Europa per ripartire in maniera, si spera, meno ideologica e più efficiente, sotto ogni punto di vista.

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