Giovanni Paolo II, il mio ricordo di vaticanista

Wojtyla
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Il destino che accomuna i protagonisti della storia è quello di essere oggetti di discussione. Non si discute dell’insignificante, ma di ciò e di chi ha o ha avuto significato nella storia e per la storia. Giovanni Paolo II, con la sua avventura umana e il suo lungo pontificato, ha certamente avuto molti significati che è difficile racchiudere o presentare tutti in un breve commento. Così ho scelto un ricordo che lega la mia piccola esperienza al suo papato. Nel centesimo anniversario della sua nascita, l’Osservatore Romano, in un articolo a firma di Andrea Tornielli, ha pubblicato un lungo editoriale nel quale si legge tra l’altro: “Celebriamo questo 18 maggio il centenario della nascita del grande Pontefice venuto dall’Oltrecortina, che nel suo lungo servizio petrino ha traghettato la Chiesa nel nuovo millennio, ha visto crollare il Muro che divideva in due l’Europa, ha sperato di veder sorgere un’era nuova di pace ma ha dovuto invece confrontarsi — già anziano e malato — con nuove guerre e un terrorismo destabilizzante e spietato, che abusa del nome di Dio per seminare morte e distruzione. E per contrastarlo, nel gennaio 2002, ha riconvocato le religioni ad Assisi senza mai cedere all’ideologia dello scontro di civiltà, puntando sempre tutto, fino alla fine, sull’incontro tra popoli, culture, religioni”.

Questo è il mio ricordo, il 24 gennaio 2002. Perché quel giorno non lo dimenticherò. Partimmo presto, noi della Rai, per il centro stampa dei francescani, a poca distanza dal Sacro Convento, bisognava non solo parcheggiare ma anche organizzare gli strumenti, gli studi, i cavi, provare i collegamenti. Prima dell’inizio della cerimonia passarono da noi molti colleghi, soprattutto gli anglofoni, appena giunti e privi dei famosi “libretti” illustrativi dell’evento, predisposti dalla Santa Sede. Così un collega mi chiese cosa si potesse dire nell’attesa: gli risposi che si potevano annunciare due no: non alla violenza nel nome di Dio e non allo scontro di civiltà. Ne rimase sorpreso, “davvero?” Gli dissi di sì, era scritto nel libretto che ci era stato dato in preparazione dell’evento. Ovviamente era il no allo scontro alla civiltà che a lui, anglosassone, premeva capire se potesse presentare come antefatto di quella giornata. Gli dissi di sì, certamente. Ricordo ancora la sua insistenza per farmi confermare con certezza che era così. Gli ribadii che era così.

Sono passati 22 ani e parlare di scontro di civiltà è un fatto ancora concreto, reale. Lo scontro di civiltà però non va visto solo con un occhio:  anche dall’altra parte, dalle altri parti, c’è chi parla di scontro di civiltà, ma come scontro con l’Occidente.

Quel giorno non lo dimenticherò per tanti motivi, innanzitutto per i colori che ho visto radunarsi, tra abiti tradizionali tutti diversi, che solo opponendosi allo scontro tra loro, cioè tra le diverse civiltà, si potevano unire. Li osservavo, cercavo di riconoscere il bianco degli uni, il nero degli altri, l’arancione dei buddisti, e così via; un arcobaleno di fedi.

Personalmente non ho mai associato il tanto citato “discorso profetico”, sintagma usato con molta frequenza, a una perfetta premonizione, quanto a un raggio di luce nel buio. E’ quello che ho percepito ascoltando il secondo e terzo paragrafo del discorso di Giovanni Paolo II: “Vogliamo recare il nostro contributo per allontanare le nubi del terrorismo, dell’odio, dei conflitti armati, nubi che in questi ultimi mesi si sono particolarmente addensate all’orizzonte dell’umanità. Per questo vogliamo ascoltarci gli uni gli altri: già questo – lo sentiamo – è un segno di pace. C’è già in questo una risposta agli inquietanti interrogativi che ci preoccupano. Già questo serve a diradare le nebbie del sospetto e dell’incomprensione. Le tenebre non si dissipano con le armi; le tenebre si allontanano accendendo fari di luce. Ricordavo alcuni giorni fa al Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede che l’odio si vince solo con l’amore”. L’odio si vince con l’amore…

Un grande antropologo cattolico, il francese René Girard, parla di questo con un linguaggio diverso, in particolare con la sua teoria della violenza mimetica. L’uomo, sostiene, agisce per imitazione e Giovanni Paolo II stava dicendo che questo non va, con il linguaggio universale della fede, che non è detto debba riguardare solo i credenti.

Nel mimetismo di cui parla René Girard, per ricorrere a un’espressione banale, “si rende pan per focaccia”. Dunque è la stessa cultura popolare, non il linguaggio degli eruditi, a dirci che la violenza è mimetica e che andare più fondo, quasi in un viaggio fino alla fine della violenza, è il viaggio che  dovremmo fare.

Se allora ricordo quella giornata oggi, ri-comprendo che quella giornata fu forse profetica per me perché mi disse che dovevo capire la lezione mimetica della violenza. Così mi colpisce che leggendo i giornali, tutti i giornali, di questo e di quell’altro mondo, quale che sia, mi appaia evidente che ci sono molte parole ricorrenti dall’una e dall’altra parte: si parla di aggressione, reazione, complotto, rappresaglia, legittima difesa, resistenza, vendetta, ma raramente si parla di violenza; perché? Giovanni Paolo II però è stato accurato e quella accuratezza la cogliamo nelle duplicità dei paragrafi, giustapposti: “le tenebre non si dissipano con le armi”, vale per entrambi. Ecco allora la grande domanda che mi pongo da allora: se è evidente che solo una rinuncia incondizionata alla violenza può salvarci dalla “violenza mimetica”, dovrei stabilire cosa io ritengo “violenza”. Questa è la grande lezione personale, interiore che mi ha lasciato quella giornata indimenticabile. Ricordo che sono tornato a Roma chiedendomi: anche proteggere è violenza? Anche salvare da morte certa lo è? O forse una corretta idea di violenza dipende dal modo in cui guarderò l’altro, il “nemico”?

Il discorso del papa ovviamente ha detto molto altro, soprattutto quando ha parlato di giustizia e perdono. La giustizia rimane tendenziale, complessa? E’ il perdono che la avvicina? Giovanni Paolo II in quella allocuzione disse anche queste parole: “la giustizia umana è esposta alla fragilità e ai limiti degli egoismi individuali e di gruppo. Solo il perdono risana le ferite dei cuori e ristabilisce in profondità i rapporti umani turbati”.

Chiudo così queste mie considerazioni banali, che non esauriscono il senso di quella giornata profetica nel senso che per me ha rappresentato un raggio di luce nel buio, a cominciare dai colori che univa in arcobaleno di fedi. Affiancando dentro di me a vecchie convinzioni nuove necessità.