Parlare di lavoro in Italia è sempre complicato, non è un mistero che il Paese abbia uno dei mercati del lavoro meno frizzanti (è un eufemismo) di tutto il mondo sviluppato anche se, a livello politico, si parla spesso di “precarizzazione”, di “politiche neoliberiste”, di “nuovi poveri” pur avendo un lavoro… Si diceva che il mercato del lavoro italiano si potrebbe definire viscoso e con un grado di mobilità piuttosto basso, nonostante tutti gli interventi che sono stati fatti nel corso degli anni, possiamo dire dal “pacchetto Treu” al Jobs Act, che, alla fine non hanno portato a grandi benefici salvo quello di moltiplicare le forme di lavoro atipiche e di tenere bassi i salari senza grandi benefici dal lato di sistema.
Questo rappresenta u grandissimo problema non solo per chi abbia già un lavoro e, magari, vorrebbe cambiare ma anche e soprattutto per i giovani che si affacciano alla ricerca di un lavoro. In questo scenario uno spunto interessante è venuto, ancora, dalle tavole rotonde organizzate durante il Consiglio Nazionale della FABI (il principale sindacato bancario) a metà gennaio: sul palco a discutere del problema, oltra che al segretario generale Lando Sileoni, c’erano i giornalisti Hoara Berselli, Sara Manfuso e Giuseppe Cruciani, con la moderazione di Nicola Porro.
Il dibattito è stato acceso, con posizioni ben diverse tra i protagonisti, e ha portato a diversi spunti di riflessione il più importante fra tutti è quello dell’opportunità di un sussidio come il reddito di cittadinanza che fu una delle bandiere del Movimento 5 Stelle e che, ora, dopo i profondi interventi da parte del governo ha cominciato ad essere un’arma retorica anche da parte di chi non solo non ne aveva votato la legge istitutiva ma che lo aveva criticato pesantemente.
Vero è che si potrebbe obiettare che c’è anche chi aveva approvato la legge che introduceva il sussidio e che, oggi, è stata parte attiva nella sua abolizione e sostituzione con altre forme di sostegno al reddito più mirate ma non si tratta di una giravolta meramente polemica come nel caso suddetto quanto, piuttosto, di una presa di coscienza della capacità distorsiva del RdC sui mercati.
Il problema, infatti, prima ancora che il costo erariale dell’erogazione del sussidio è stata la distorsione, lato offerta, del mercato del lavoro innescata da questo che era anche abbastanza agevole da ottenere e abbastanza elevato, relativamente al costo della vita di alcune zone d’Italia, da permettere di fare “altre scelte” più che accettare questo o quell’impiego.
Per onestà intellettuale, però, va aggiunto che un sussidio universale come il RdC ha permesso, però, di scoperchiare il vaso relativo alle condizioni di lavoro che alcuni settori offrono a chi sia in cerca di impiego poiché la prestazione assistenziale, a livello di utilità personale, si poneva in concorrenza diretta con l’offerta economica da parte di alcuni datori di lavoro, arrivando, a volte, addirittura a superala come mostrato più volte da giornalisti come Charlotte Matteini soprattutto sulle sue pagine social.
Andando oltre questi casi specifici che, naturalmente, rappresentano solo una parte, minoritaria si auspica, della domanda di lavoro, la situazione resta, però, sconfortante.
Ben sappiamo che nel corso dell’ultimo trentennio i salari italiani siano gli unici ad aver avuto una progressione reale negativa rispetto a tutti gli stati OCSE, qualcuno parlerà di “produttività” insufficiente a giustificare la progressione salariale ma facendo il conto che il PIL, negli ultimi 25 anni tra crisi profonde e flebili riprese, sia comunque salito del 12,5% circa possiamo dire che le remunerazioni siano salite in maniera proporzionale?
Questo è uno dei nodi principali quando si parla di giovani e lavoro cioè il salario ma occorre anche parlare delle condizioni di lavoro che non sono certo ottimali in molti settori, soprattutto nel settore del commercio al dettaglio e della ristorazione.
D’altro canto, a voler ben vedere, si capisce la posizione di chi, come Hoara Borselli sia durante il dibattito sia in diversi suoi articoli, indica come i giovani non si sappiano adattare, come diverse rilevazioni statistiche hanno mostrato in questi anni, e che un periodo di prova e formazione sia necessario quando si intraprende un’avventura professionale, questo è assolutamente condivisibile ma quello che non si può accettare è che, in molti casi, si tenda a non remunerare o a pagare addirittura meno dei minimi tabellari i neoassunti, magari ricorrendo a forme non esattamente regolari di ingaggio.
La gavetta, insomma, è sì sacrosanta ma va pagata il giusto e, attenzione, questo non è un discorso da sindacalista o da veterosocialista ma è una verità di mercato perché nessuno ti assume per farti un piacere, lo fa perché tu vai a risolvere un problema, altrimenti nessun agente razionale andrebbe a sprecare risorse per stipendiare una persona non utile alla propria attività.
Parlando in termini meramente mercatistici si potrebbe fare un parallelo a quando ti si rompano le scarpe e, al momento della sostituzione con un paio nuovo, sei obbligato a pagarle e non prese in prova e, poi, forse saldarle una volta sicuri che siano adatte alle proprie esigenze.
A qualcuno questo paragone farà sicuramene storcere il naso ma assumere una persona significa comprarne le competenze, il tempo e l’impegno esattamente come comprare un paio di scarpe significa acquistare protezione per il piede e facilitazione al cammino; qualcuno, nel passato, disse che “non esistono pasti gratis” e così è anche sul mercato del lavoro. Non voler pagare il giusto prezzo significa non trovare quello che si sta cercando, punto.
Questa è la questione fondante del momento non esattamente roseo per il mercato del lavoro italiano, nonostante le statistiche indichino che la popolazione attiva sia in crescita e il tasso di disoccupazione in calo, dati sicuramente positivi ma che ancora non si riflette al meglio dal lato dei giovani tra i quali si registra ancora un tasso di disoccupazione superiore al 21%.
Certo c’è una componente legata al sostegno delle famiglie che permette a tanti di poter scegliere e di continuare la ricerca di un posto di lavoro appetibile per tempi più lunghi che in passato, certo ce ne è un’altra legata allo scollamento tra la scuola e il mondo del lavoro ma c’è anche la difficoltà nel trovare delle occupazioni qualificate per chi abbia investito anni in studio e formazione.
Parlando delle banche, poiché lo spunto è nato da una discussione sul palco del principale sindacato bancario, che attrattiva potrebbe avere un posto di responsabilità pagato come un livello di entrata in una catena della GDO e con la prospettiva di passare anche anni a “contare soldi” in cassa o a chiamare i clienti per vendere un finanziamento al consumo o una carta di credito per chi abbia conseguito una laurea e, magari, proseguito con corsi superiori dopo?
Ben poca, in effetti, seppur negli istituti di credito ci siano posizioni in vari settori, dalla finanza, al marketing, all’organizzazione, all’IT però il cursus honorum parte spesso dalla cassa di una filialetta in periferia, dalla quale si esce dopo diverso tempo e questo, certamente, attira poco.
Non è che il resto del mondo sia molto diverso, ovviamente, però sono le prospettive di crescita, oltre che giustamente di guadagno, che invogliano una persona a intraprendere questa o quella professione, non è una questione di sussidi o di una “generazione choosy” (per citare una celebre ex ministro della Repubblica), per poter attirare i giovani è questo che bisogna dare, anche perché il ricambio generazionale in ogni settore rappresenta un arricchimento continuo e uno stimolo a produttività e crescita ed è forse questo che manca nella visione di molti manager e imprenditori nel Paese anche se, forse, qualcosa sta cambiando, lentamente ma sta cambiando.