È in corso una gara su chi taglia per primo il traguardo della morte a richiesta. Lo start lo ha dato due anni or sono la Corte costituzionale, con la sentenza n. 242/2019. Intervenendo sull’art. 580 cod. pen., che punisce l’istigazione e l’aiuto al suicidio, essa, dopo aver inutilmente interpellato un Parlamento rimasto inerte, ha stabilito quali sono le condizioni di non punibilità per le condotte di aiuto al suicidio: chi aiuta altri a togliere la vita commette oggettivamente un reato, ma poi va esente da responsabilità se il giudice valuta che il paziente “sia affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che reputa intollerabili”, che esprima un valido consenso alla propria uccisione, e che vi sia stato il previo ricorso alle cure palliative, senza che abbia sortito effetto.
Oggi la competizione è fra un testo di legge di disciplina dell’eutanasia, in discussione alla Camera, relatore l’on. Bazoli; un documento che il ministro della Salute ha annunciato con una lettera inviata a La Stampa prima di Ferragosto, con cui sollecita le ASL a dare attuazione a quanto sancito dalla Corte costituzionale; e il referendum promosso dall’associazione Luca Coscioni.
Quest’ultimo è un caso tipo di una frode di etichetta. Viene denominato “referendum per l’eutanasia legale”, ma in realtà il quesito, se approvato, renderebbe non punibile l’omicidio del consenziente, oggi sanzionato dall’art. 579 cod. pen. Le sofferenze intollerabili e le malattie inguaribili sono fuori luogo: qui non c’entrano nulla, conta solo l’espressione del consenso a prescindere dalle condizioni di salute della persona. In un ordinamento come il nostro in cui, con ragione, sono vietati gli atti di disposizione del proprio corpo, e le deroghe sono rigorosamente disciplinate – si pensi alla donazione di un rene fra vivi -, il quesito avrebbe della formalizzazione estrema della disponibilità della vita umana, a condizione che l’altro presti il consenso alla propria uccisione.
Questa concorrenza per la morte è una corsa è alla soluzione in apparenza facile e meno costosa: non sia mai che per l’ammalato che non tollera più la sua condizione si provi, più che con l’abbandono e con l’iniezione letale, con una vicinanza reale, per garantirgli, insieme con le cure palliative – se necessarie -, l’insostituibile sostegno umano.
Così prendiamo in parola l’anziano che, lasciato in compagnia della sua solitudine e della nostra indifferenza, vede accentuati i malanni dell’età e si chiede perché il Signore non lo lasci andare: ho il rimedio per te – gli rispondiamo -, che non è dedicarti qualche minuto di tempo, ma garantirti una fine indolore. Senza comprendere che quella domanda di morte esige in realtà la nostra attenzione e e la nostra vicinanza vera, e retrocede se queste ci sono. Non leggiamo la disperazione del familiare che trascorre senza aiuto anni a fianco a quell’anziano, e per questo anche in tv è pronto (non sempre) a sollecitare strumenti che facciano cessare lo strazio: andrebbe allo stesso modo se avesse avuto o se avesse sostegni concreti?
Quell’eutanasia che sul piano individuale è mostrata come la soluzione al patimento quotidiano, del paziente e dei suoi familiari, sul piano generale diventa una misura economica coerente con un corpo sociale che ha scelto di essere più anziano, e quindi più acciaccato. Il cerchio si chiude con un bel taglio ai rami secchi: che non è soltanto uno slogan per vincere la gara di procurare la morte prima degli altri. È l’allontanamento da sé di ciò che vale, e per questo costa. È la rinuncia ad amare.
Alfredo Mantovano del Centro Studi Livatino