Siamo abituati, solitamente, a sentire le sirene d’allarme riguardanti lo stato dell’economia italiana, dipinta spesso, come una zona in progressiva desertificazione, con alte imposte, crescita nulla o quasi, aziende decotte e povertà dilagante anche quando i dati macroeconomici propongano una fotografia piuttosto differente.
Se è vero che il debito del Bel Paese sia tra i più elevati del mondo e che il deficit, quest’anno, sia particolarmente corposo, per via soprattutto delle spesature degli sciagurati bonus edilizi introdotti dal Governo Conte 2 seppur, via via, corretti durante l’esperienza Draghi e chiusi dall’attuale Governo Meloni e che ci ha portato a subire l’apertura di una procedura di infrazione da parte dell’UE per deficit eccessivo, non si può negare che i tendenziali giochino a favore dello Stivale con tassi di crescita che si collocano nella parte più elevata della distribuzione continentale e tassi prospettici di indebitamento in progressiva, seppur lenta, diminuzione; le vere preoccupazioni per i mercati, invece, si rivolgono altrove e precisamente verso la Francia.
Alcuni giornali, infatti, si sono sbilanciati, nei giorni scorsi, indicandola come “il malato d’Europa”, ripescando una definizione evocativa che negli anni 90, era stata coniata per indicare la Germania, ai tempi alle prese con un’economia gravata dalle conseguenze della riunificazione che l’avevano, di fatto, azzoppata. Oggi, però, questa può benissimo indicare lo stato dei transalpini, cosa che si riflette perfettamente nell’attuale situazione politica.
Oggettivamente non si può dire che il periodo segnato dalla presidenza Macron sia dei più felici per Parigi: negli scorsi mesi si è assistito a varie proteste per le riforme economiche, in primis quella previdenziale, per poi arrivare alla debacle per il “partito del presidente” subita alle elezioni europee che, addirittura, non ha premiato tanto i gollisti de Les Republicains quanto la destra del Rassemblement National di Marine Le Pen spingendo, addirittura, allo scioglimento del Parlamento e alla chiamata a nuove elezioni che, se non si formasse una coalizione trasversale per bloccare “l’ondata nera” sfruttando il sistema elettorale esistente, vedrebbe credibilmente quest’ultimo come pretendente al futuro governo dell’Esagono.
Vero è che il RN non sia il vecchio Front National del padre, Jean Marie, dell’attuale leader della destra ma il successo di un gruppo politico che si pone in netta rottura con le politiche, soprattutto europee, di tutte le formazioni precedenti, socialiste, golliste o “macroniste”, che si siano susseguite finora è un sintomo di un malessere ben più profondo che si palesa nel continuo declino della Francia che, da tempo, mostra dei tendenziali economici molto preoccupanti, ben più di quelli degli stati che, solo qualche anno fa, erano indicati, quasi con disprezzo, PIIGS che, adesso, sembrerebbero avviati verso una rinascita. Ma quali sarebbero questi tendenziali?
Per primo, sicuramente, il livello del debito pubblico, oggi, al 110,6% sul PIL e che S&P indica al 112% entro il 2027; qualcuno potrebbe dire “bazzecole rispetto al 137% italiano” ma è lo stock complessivo a essere preoccupante poiché in valore assoluto è il più elevato in Europa (oltre 3’000mld di euro) con un disavanzo di bilancio crescente, in più questo è detenuto in gran parte da investitori esteri cosa che potrebbe renderlo più sensibile alle tensioni di mercato rispetto, ad esempio, al debito italiano che è detenuto mediamente da investitori “cassettisti” in patria, anche sulla spinta di emissioni dedicate all’acquisto da parte degli investitori privati, come il BTP Italia, che, con la riduzione del programma di acquisti da parte della BCE sembra sia stata una strategia piuttosto furba per stabilizzare la situazione finanziaria.
Il punto principale, però, nel descrivere la situazione francese è da ricercarsi nella continua perdita di competitività dell’economia che vede da quasi 20 anni la bilancia commerciale in rosso così come i saldi finanziari con l’estero che sono da anni in profondo rosso, contrariamente all’Italia che, dati WTO alla mano, si classifica appena fuori dal podio tra gli esportatori netti mondiali (se non si considerasse il comparto automotive) e tra i creditori netti a livello finanziario.
L’immagine che ne esce non è certo in linea con il sentimento di grandeur tipico della Francia, anzi, come si diceva poc’anzi è una fotografia di un deterioramento anche piuttosto rapido dei fondamentali economici che non lascia molte speranze per una prossima inversione di tendenza tanto che pure la borsa francese, dopo aver “prezzato” il declassamento del rating da parte di S&P (mentre Moody’s e Fitch lo hanno lasciato invariato) ha, di fatto, azzerato i guadagni da inizio anno qualche settimana fa per, poi, cominciare il lento recupero. La grande questione che si porrà, quindi, alla maggioranza che uscirà dalle urne può benissimo essere riassunta nella celebre locuzione leniniana “che fare?”
La risposta non è certo semplice perché la situazione dell’Esagono è, più o meno, speculare a quella italiana con la crescita, seppur positiva del PIL 2023 (+ 0,9% in linea con il dato italiano) è generata esclusivamente dalla domanda interna sostenuta da consumi e spesa pubblica, a sua volta finanziata da una pressione fiscale molto elevata, ben superiore a tutte le altre in Europa mentre viene penalizzato dai saldi della bilancia commerciale che, come si accennava prima, sono negativi da diversi anni.
Il parallelo con l’Italia è piuttosto interessante, in questo caso, proprio perché la crescita italiana è spinta, invece, dall’export e dalla produttività della media-grande imprese mentre è penalizzato dalla domanda interna assai insufficiente e le sfide che questo stato dovrà affrontare riguardano soprattutto l’aumento della produttività della PMI che possa spingere salari, consumi e investimenti mentre passata Ventimiglia l’obbiettivo dovrebbe essere quello di ridurre la domanda interna per spingere in positivo la bilancia commerciale e ridare competitività a tutto il sistema economico che, invece, è drogato da fin troppo tempo dall’intervento diretto dello stato.
In entrambi i casi è necessaria una rimodulazione della spesa, in effetti, per arrivare a una razionalizzazione del fisco e, alla fine, a una riduzione del suo peso per efficientare tutto il sistema e rendere più appetibile l’investimento interno però mentre sembrerebbe che questo punto sia entrato prepotentemente nell’agenda della maggioranza italiana questo fatichi a trovare spazio in Francia che continua inesorabilmente la corsa lungo la china del declino.
Sulla questione è intervenuta anche la banca d’affari Goldman Sachs, con la voce del suo CEO Richard Gnodde, che promuovendo l’Italia mostra una certa apertura anche a un possibile approdo del partito guidato oggi da Jordan Bardella al governo di Parigi. Le parole riportate da un’intervista a Il Sole 24 Ore non presentano alcuna possibilità di fraintendimento: “La leadership che il primo ministro Meloni ha dimostrato e il modo in cui ha gestito la sua amministrazione sono molto importanti per gli investitori in questo momento. Quando si guarda alla situazione francese e alle prospettive di un governo di destra o di estrema destra, le persone si sentono confortate dal modo in cui il primo ministro italiano ha finora gestito la sua amministrazione”; se non si tratta di una fortissima apertura di credito al partito fondato da Marine Le Pen, quindi, poco ci manca.
Nonostante questo, però, per uscire dall’impasse attuale il futuro esecutivo francese dovrà attuare una politica riformista molto pesante e, certamente, non in linea con quanto fatto fino ad oggi da ogni formazione che abbia governato il Paese, anche con provvedimenti impopolari, e seppur soffi un certo vento di rinnovamento sopra la Senna di rivoluzioni, là, se ne è già vista una, passata alla storia e divenuta proverbiale, ma non sembra ce ne siano, oggi, all’orizzonte.