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La ferita della democrazia difficile da rimarginare

L’orecchio ferito di Donald Trump – a un centimetro appena dalla morte e dalla seconda guerra civile americana – non si rimarginerà facilmente, e non è solo una questione di vasi sanguigni. Per giorni e mesi, forse anni, sentiremo ancora chiedere come mai il giovane Crooks sia riuscito ad arrampicarsi fino lì e a mettere nel mirino l’uomo che vorrebbe succedere a Joe Biden e soprattutto a se stesso. Forse lo ha fatto perché voleva essere l’Uomo che uccise Liberty Valance, probabilmente passerà alla storia come un emulo mal riuscito di Lee Oswald, a cominciare dal tipo di appostamento e dall’ondivaga appartenenza politica.

Viceversa, dalle prossime ore capiremo come e quanto Trump sfrutterà la vicenda. Il pugno alzato prima di essere trascinato via dalla scurezza lascia intendere molto. In Brasile Bolsonaro subì un trattamento simile da parte di un esagitato e la cosa lo aiutò non poco ad ottenere il successo finale. Poi i brasiliani ebbero modo di rimpiangere la scelta, ma del senno di poi sono piene le fosse.

Biden, paradossalmente, potrebbe uscirne rafforzato. Lo vediamo impegnato a salvare la candidatura forte di tanta parte del Partito democratico (da ultimo Bernie Sanders) e dei sondaggi che non sono malvagi, ma soprattutto in virtù di un fatto inoppugnabile: lui è l’unico in grado di poter bloccare l’avversario. Se Trump si rafforza, si rafforza sull’altro versante chi potrebbe essere l’unico ostacolo alla vittoria repubblicana. Cambiare cavallo adesso vorrebbe dire aprire la strada alla sconfitta.

In altre parole: l’attentato di Butler non sconvolgerà probabilmente gli assetti della campagna elettorale. Ne sconvolgerà, semmai, la natura: è innegabile come sia dai tempi di Robert Kennedy e George Wallace che un candidato non si trova ad essere oggetto di un attentato. I tempi di Kennedy e Wallace, rispettivamente il 1968 ed il 1972, sono quelli non a caso della fine dell’età dell’innocenza americana, e l’inizio della fase della violenza.

Qui, però, il fenomeno è all’inverso: l’attentato va a segnare il culmine di anni di hyperpartisanship, denigrazione e delegittimazione reciproca, distruzione del bene comune istituzionale della più importante democrazia del mondo. Il culmine di questa decadenza è ben rappresentato dall’attacco al Congresso del 2021.

Facile dire ora che chi semina vento raccoglie tempesta; facile al limite del criminale: la pallottola spuntata che ha sfiorato il cervello di Donald Trump è un avvertimento per tutti, democratici compresi. È un segnale che il veleno istillato per lungo tempo nelle vene dei sistemi democratici – il nostro compreso – ha sviluppato tossine che difficilmente potranno essere smaltite in un mattino.

La democrazia è ferita in modo ben più serio di quanto, fortunatamente, non lo sia Trump. Come ha detto Bergoglio a Trieste, c’è di esserne molto preoccupati. C’è bisogno di nuove culture politiche e nuovi strumenti di presenza: se c’è una lezione da trarre da questa orrenda storia, è che la personalizzazione della politica porta alla creazione dei bersagli. Non c’è un Owsald, non c’è un giovane Crooks che possano sparare ad un partito intero.

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