In Italia, ogni due giorni una donna viene uccisa dal proprio partner. Il fenomeno della violenza sulle donne parte da lontano, ha radici antiche in un retaggio culturale difficile da scardinare. È una violazione dei diritti umani che spezza vite, blocca lo sviluppo, divide le comunità. Maltrattamenti, stalking, omicidi riguardano tutti gli ambienti sociali e culturali, e impongono una riflessione collettiva per comprenderli e trovare gli iter migliori per eradicarli.
Raramente si tratta di gesti impulsivi, sono situazioni che si trascinano nel tempo con dinamiche piuttosto tipiche e identificabili, che si ripetono. Il “ciclo della violenza” è un’alternanza tra episodi di aggressività violenta e periodi di apparente tranquillità, la “luna di miele”, in cui l’aggressore finge che non sia accaduto nulla. La vittima non è responsabile, non ha nessuna colpa, la violenza è nella mente dell’aggressore. Le motivazioni sono molte e diverse, ma tutte hanno in comune la mancanza di rispetto e il disprezzo per la donna in sé.
Le bambine che sono state caregiver di genitori depressi, da adulte hanno maggiori difficoltà a leggere i segnali di un partner violento, poiché abituate a disturbi comportamentali bonari in persone verso cui hanno senso di protezione e grande premura. Perciò, hanno un’alta soglia di sopportazione verso gli atteggiamenti che precedono le aggressioni. Altre donne, che sono state oggetto di aggressività fisica e verbale in famiglia, scambiano la violenza per una manifestazione d’affetto, con conseguente difficoltà a proteggersi.
Le donne abusate non sono fragili, deboli o incerte, sono le aggressioni ripetute che le rendono tali, poiché causano paura, insicurezza e vergogna, sentimenti così dolorosi che la mente non può contenerli, così terrorizzanti da paralizzare. Temibile è “la resa”, quando la vittima si convince di essere responsabile di “qualcosa”: all’inizio colpa e vergogna portano a sminuire o nascondere i fatti, col tempo giustifica l’aggressore, fin quanto si convince di meritare una punizione. È lo stesso principio della tortura, i partner violenti lo sanno, per esperienza o educazione.
Alcune dinamiche relazionali inconsce possono determinare contesti aggressivi. Alcune donne, cresciute in contesti familiari violenti, hanno un’idealizzazione difensiva dell’amore, per questo non leggono i segnali e indebolite, non reagiscono. In alcuni contesti, le aggressioni sono un modo primitivo di rispondere a umiliazioni e frustrazioni, alla paura del crollo o di frammentazione del proprio Sé. Sulla vittima prescelta è scaricata la rabbia cieca, la brutalità dà al carnefice un’illusione di forza, virilità e potere. Anche l’abuso di alcool e di altre sostanze stupefacenti, frequentemente, sono fattori scatenanti.
È necessario educare fin dalla prima infanzia al rispetto dell’altro e della diversità, alla complementarietà tra i sessi. L’educazione sentimentale mostra la forza dei sentimenti, la bellezza del bene per l’altro e dell’altro, in cui l’educazione sessuale è una parte del cammino verso l’integrazione della sessualità con l’affettività all’interno di relazioni d’amore. Bisogna lavorare sull’importanza della condivisione, fondamenta per la creazione di relazioni sociali, paritarie, costruttive.
Le bambine divenute donne, riescono così a riconoscere i segnali d’allarme nei ragazzi con disagi psicologici ancora non risolti, che possono incontrare. Inoltre, è necessario incoraggiarle a fidarsi del proprio intuito, a dipanare dubbi e perplessità, a confidarsi con familiari e amici cari e dare spazio ai sentimenti e a quel diritto tanto importante, che mai andrebbe dimenticato e trascurato, di “essere felici e prendersi cura di se stessi”.