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Femminicidi: cosa dovrebbero fare lo Stato e tutti i cittadini

Un recente Dossier Viminale, pubblicato a Ferragosto, mette in evidenza come siano 125 le donne uccise in Italia tra l’agosto 2021 e il 31 luglio 2022, il 15,7% in più rispetto alle 108 dell’agosto 2020-luglio 2021. Delle 125 donne vittime negli ultimi dodici mesi, 108 sono state uccise in ambito familiare-affettivo, 68 da partner o ex partner. Nel periodo in questione, gli omicidi di donne hanno rappresentato il 39,2% del totale di quelli commessi nel nostro Paese (319).

La riflessione sulla violenza di genere e sul femminicidio è molto diffusa in questo momento nei media, sui blog e sui social network. Il femminicidio indica l’uccisione di una donna e una forma frequente di violenza è la violenza domestica, perpetrata da familiari e spesso dal partner.

L’aumento di casi di violenza viene spesso associato al fatto che in questo momento si sta vivendo una fase di mutamento dell’identità femminile, che si dirige verso l’emancipazione e la libertà, come in maniera chiara spiega il famoso psichiatra Crepet: “Dietro al femminicidio, si nascondono tante realtà molto diverse. Essenzialmente molti uomini hanno ancora difficoltà ad accettare la lunga coda della liberazione della donna, nonostante siano passati più di quarant’anni dalle tante conquiste, come il divorzio […] Sono quelli che non hanno elaborato ciò che è avvenuto in questi anni, restando legati a un concetto di famiglia arcaica, che vede la donna ancora come sottomessa e l’uomo con un ruolo dominante”. Il grande distacco tra la donna antiquata di un tempo e la nuova rappresentazione femminile avente un ruolo attivo nella società sembra purtroppo rendere più fertile il terreno per la violenza contro le donne.

Da un punto di vista politico, invece, risulta imbarazzante l’inadeguatezza della società dinanzi all’emancipazione femminile, a causa di risposte, da parte dello Stato, spesso tardive o inadeguate alle denunce di violenza da parte delle vittime. Spesso la conseguenza è stata ed è la morte della donna. In uno stato di diritto tutto questo ha dell’assurdo. 

Molto spesso capita che la denuncia sia difficile da attuare perché vi è il concreto rischio di aumento di maltrattamenti in condizioni di terrore, e chi è terrorizzato fatica a parlare. C’è chi invece riesce a denunciare ma è come se non lo avesse mai fatto

Tra i tanti femminicidi, mi viene in mente il caso di Alessandra Matteuzzi uccisa a martellate dall’ex che aveva già denunciato. Lui, calciatore italiano, secondo la ricostruzione della politica Brignone, “da tempo era diventato insistente, le faceva agguati per le scale, le ha rotto i vetri, è entrato dal balcone al secondo piano, ha spaccato bicchieri, le ha staccato la luce dal contatore”. E poi l’ha uccisa! Cosa deve ancora accadere perché lo Stato faccia qualcosa di realmente efficace per la tutela delle donne? Lo stato dovrebbe dunque dedicare molto più tempo e molte più risorse nella costruzione di aree per l’ascolto delle donne, per l’indagine e per la loro protezione. Bisognerebbe potenziare i centri antiviolenza e i consultori familiari, che sono estremamente importanti, e dovrebbero essere messi in condizione di funzionare bene su tutto il territorio italiano, attraverso una maggiore quantità di professionisti e un incremento in termini di sostentamento economico per una ancor più mirata azione clinica di intervento di qualità.

Inoltre, l’introduzione del concetto di femminicidio come aggravante sarebbe un importante passo in avanti. Non si comprende cosa si attenda perché vengano introdotte misure legislative ad hoc e urgenti. La vita non contempla attese. Bisogna intervenire, subito!

L’aspetto più rilevante è quello dell’educazione da impartire alle donne. Non meno importante è l’esempio che la madre e il padre devono testimoniare con i propri figli maschi proprio in riferimento al rispetto da avere nel rapportarsi al genere femminile. In linea con il discorso di Crepet, le madri e i padri devono dire alle figlie di lasciare immediatamente il fidanzato al primo accenno di uno schiaffo, facendo capire loro che quella non è una prova d’amore, anzi tutto il contrario. È un comportamento che non va tollerato né discolpato. Il problema è che gran parte delle madri ha incassato per anni con il marito, mandando giù rospi, non solo in termini di violenza, ma anche di incomprensioni e sottomissioni. E quindi, per non mettersi in discussione, questo loro atteggiamento lo tramandano alle loro figlie. L’esempio diviene il sacrificio per unire… ma non si unisce. Si divide la propria identità di donna. Le donne, così facendo, puniscono sé stesse, a volte (ultimamente spesso in realtà) in maniera decisiva. Una spina fatale. Incisive e vere sono, in tal senso, le parole di Luciana Littizzetto: “Un uomo che ci picchia non è un uomo. E dobbiamo capirlo subito. Al primo schiaffo. Perché tanto arriverà il secondo, e poi un terzo e un quarto. L’amore rende felice e riempie il cuore, non rompe costole e non lascia lividi sulla faccia”.

L’amore, soprattutto, non uccide ma rende la vita migliore. L’amore è bellezza, cura, volere il bene incondizionato dell’altro anche quando si allontana. Amare vuol dire focalizzarsi sulla realizzazione dell’altro. L’amore richiede una vocazione convinta, un “sì” totale da rinnovare ogni giorno di fronte alle tante difficoltà della vita, un “sì” pieno, un’adesione profonda a ciò che si fa, all’oggetto del proprio sentimento, perché è questa adesione profonda che rende possibile la realizzazione del “noi”. Esso rifiuta ogni forma di egoismo e di possesso. L’altra non è “mia”, non potrà esserlo mai, nell’accezione negativa e maschilista. Non si può permettere che un essere umano, tanto meno la donna, venga ridotta ad essere “cosa”, oggetto. È importante, altresì, per la donna vittima di femminicidio, parlare e farsi aiutare. Bisogna vincere la paura e ritornare a vivere.

Straordinarie sono, in tal senso, le parole di Padre Maurizio Patriciello: “Donne vi chiediamo scusa. Non siamo capaci di essere alla pari con voi. L’antica abitudine di alzare la voce e le mani per intimorirvi, in noi proprio non vuol morire. Per favore, se non ne siamo capaci noi, fatelo voi. Non vi fermate all’apparenza, non vi accontentate dell’aspetto fisico, non credete subito alle nostre parole. Scrutateci. Osservateci. Studiateci bene…”.

Queste parole fanno il pari con quelle di Noemi Durini, la ragazza assassinata dal fidanzato, che aveva postato poco prima di essere uccisa: “Non è amore se ti fa male, non è amore se ti controlla, non è amore se ti fa paura di essere quello che sei, non è amore se ti picchia, non è amore se ti umilia, non è amore se ti proibisce di indossare i vestiti che ti piacciono, non è amore se dubiti della tua capacità intellettuale, non è amore se non rispetta la tua volontà, non è amore se fai sesso, non è amore se dubiti costantemente della tua parola, non è amore se non si confida con te, non è amore se ti impedisce di studiare o di lavorare, non è amore se ti tradisce, non è amore se ti chiama stupida e pazza, non è amore se piangi più di quanto sorridi. Non è amore se colpisce i tuoi figli. Non è amore se colpisce i tuoi animali. Non è amore se mente costantemente. Non è amore se ti diminuisce, se ti confronta, se ti fa sentire piccola”.

È esattamente così. L’amore è, come detto, tutt’altra cosa. Una donna che subisce violenze ha bisogno di riferimenti come centri antiviolenza, consultori familiari e realtà associative femminili di qualità. Bisogna favorire la possibilità che la donna venga supportata e acquisisca gli strumenti per ricostruire la stima di sé che le violenze hanno compromesso, fronteggiare la paura, vivere la condivisione con altre donne che hanno vissuto situazioni simili e, nel momento in cui sia utile, affrontare un percorso psicoterapeutico.

Dobbiamo fare qualcosa in più anche noi cittadini, oltre che lo Stato. Dobbiamo migliorare nel linguaggio, essere testimoni di rispetto per l’essere umano, per la donna in particolare. Bisogna incoraggiare la cavalleria, quella vera, non quella ostentata e strumentale. Più saremo in grado di prevenire le violenze dei partner o di soffocarle al primo manifestarsi, rendendo l’aggressore oggetto di una ferma, drastica e unanime condanna, senza “se” e senza “ma”, più saremo in grado di contrastare la solitudine della donna. In tale prospettiva la solidarietà, il senso di comunità nonché i servizi di emergenza divengono i mezzi attraverso cui possiamo provare a guardare a questa problematica in una maniera che non sia remissiva ma propositiva.

C’è il bisogno di vedere donne che vengano aiutate a riprendere in mano la propria vita. È importante trasmettere alle donne vittime di violenza la voglia di rialzarsi, l’importanza del riscatto e del coraggio. A tutte le donne che sono attualmente vittime di violenza rivolgo il mio ricordo sincero e profondo e dico di non indugiare. Fatevi aiutare. A voi, tutte, mi permetto di aggiungere un’esortazione sentita: amatevi e lasciatevi amare da chi questo verbo lo sa coniugare nella e con la vita.

Prof. Alfredo Altomonte: